Risarcimenti Battaglia legale

«Stress da naufragio, ecco perché ho perso il bimbo che portavo in grembo». Così una sopravvissuta della «Concordia», spiega di aver abortito a causa del naufragio e ha avviato una causa di risarcimento con la quale chiede 1 milione di euro di danni alla Costa.
Cristina M., trentenne milanese, impiegata in una azienda romana, al quinto mese di gravidanza si trovava a bordo della supernave da crociera naufragata al Giglio insieme con il marito, commercialista quarantenne. «Quella sera - racconta Cristina - io e mio marito eravamo a cena con altre tre persone. Ad un certo punto abbiamo avvertito un boato e poco dopo un altro ancora più forte e abbiamo capito subito che era successo qualcosa di grave. Siamo usciti e nei corridoi c’era gente che correva da ogni parte, che urlava, che si spingeva. Io e mio marito, fortunatamente siamo riusciti ad andare all’aperto e a metterci subito in fila per salire sulle scialuppe». Poi il ricordo di quando la nave si è piegata: «A noi hanno dato subito i salvagente ma non si riuscivano a sganciare le scialuppe. Alcuni marinai hanno dovuto usare le accette antincendio per tagliare i cavi della prima scialuppa e fare scendere così anche le altre. È evidente che non era mai stata fatta manutenzione. Nel frattempo c’è stata gente che si è buttata in acqua». Una volta in salvo Cristina era stata ospitata brevemente a Roma dai suoceri, quindi era rientrata a Milano per farsi visitare dal proprio ginecologo. Accusava dolori al ventre e perdite ematiche. «Il medico mi ha detto di stare a riposo perchè ciò che mi stava capitando poteva essere stato determinato dal forte stress».
La situazione però è precipitata e il 20 gennaio Cristina è stata accompagnata in ospedale dove le è stato diagnosticato il distaccamento del feto dall’utero e il conseguente aborto. La donna ha dunque deciso di adire a vie legali, scegliondosi ben tre avvocati, Cristiano D’Aveta, Marco Angelozzi e Giacinto Canzona che hanno chiesto a Costa Crociere il risarcimento dei danni morali, materiali e biologici subiti, il che, tradotto in soldoni, significa circa un milione di euro. Ma c’è un cavillo che potrebbe giocare a sfavore. Lo si legge nelle condizioni di contratto tra Costa e passeggeri. «Poiché le navi non sono attrezzate per l’assistenza alla gravidanza e al parto non potranno essere accettate prenotazioni di passeggere che alla data del termine del viaggio verranno a trovarsi oltre la 24esima settimana di gravidanza. Tutte le donne incinte dovranno produrre all’imbarco un certificato medico attestante lo stato di buona salute proprio e del bambino, nonché l’idoneità a partecipare al viaggio e la data del presunto parto. Costa Crociere non potrà, in alcuna maniera, essere ritenuta responsabile per qualsiasi evento occorso durante o dopo il viaggio e derivante o comunque connesso allo stato di gravidanza», si legge nelle condizioni.


Ma l’azione dei suoi legali, che si sono uniti alla class action intentata da altri passeggeri, si basa principalmente su una sentenza della Cassazione, che stabilisce che «una Compagnia è tenuta anche al risarcimento del danno non patrimoniale da vacanza rovinata, il quale costituisce una ipotesi di danno morale da inadempimento». Nel caso di Crisina il danno subito, ovvero la perdita del figlio - se sarà certificato dai giudici - è certamente superiore.

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