Le banche italiane, lo scrigno dei nostri risparmi e il motore finanziario delle imprese made in Italy, rischiano di tornare nelle mani del Tesoro o di finire nella pancia di qualche gruppo straniero pronto a sfruttare quello che sarebbe un banchetto a prezzi stracciati. A guidare la rivolta contro le regole anti-crisi scritte da un’Unione Europea dominata dall’asse franco-tedesco sono stati Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo (il principale istituto del nostro Paese) e il suo secondo azionista, la Fondazione Cariplo di Giuseppe Guzzetti (che siede anche alla guida dell’Acri), seguiti dall’Abi di Giuseppe Mussari e l’ad di Unicredit, Federico Ghizzoni. Praticamente i king maker del nostro sistema creditizio retail, anche ieri fatto a pezzi dalla Borsa: Intesa Sanpaolo ha ceduto il 7,4%, Mps il 6,1%, Unicredit il 5,6%, Ubi il 4,5% e il Banco Popolare il 4 per cento.
«Governo e Parlamento» avviino subito «vere riforme» per riavvicinare gli investitori e sciogliere il nodo di quella che è una crisi di fiducia, è stato l’urlo di guerra con cui Bazoli ha respinto la pretesa dell’Eba, l’authority del credito europeo, che le banche italiane raccolgano nuovi capitali per prepararsi al peggio. Il diktat, basato sul fatto di considerare più «pericolosi» i Bot e i Btp di cui i gruppi della Penisola hanno fatto incetta rispetto ai titoli greci o ai prodotti «tossici» che inquinano i bilanci delle concorrenti francesi o tedesche, comporta per l’Italia il rischio di tornare «a un sistema bancario pubblico che ci riporterebbe indietro di 30 anni», ha scandito Bazoli. Sostanzialmente all’epoca delle cosiddette «Bin», le banche di interesse nazionale (Comit, Credito Italiano e Banco di Roma) controllate dall’Iri; cancellando in un colpo ogni liberalizzazione. «Se le banche non riescono a raccogliere capitali l’unica prospettiva è un intervento dello Stato o in forma diretta o attraverso fondi sovrani», ha detto Bazoli aggiungendo che «a medio e breve termine» potrebbero essere le stesse banche straniere a tentare di fare incetta. A quel punto l’avanzata della finanza internazionale su Piazza Affari diventerebbe un’invasione. Non solo, l’effetto della guerra in corso sui Btp (Intesa ne ha in pancia per 58 miliardi, Unicredit per 48), gli «spread così elevati e le necessarie riserve di liquidità» non sono sostenibili. E i paletti di Bruxelles provocheranno un’ulteriore «restrizione del credito», esattamente quello di cui non ha bisogno un sistema industriale come quello italiano che già fatica a rialzarsi.
Utilizza toni feroci anche Guzzetti: «Sono arrabbiato perché salviamo gli interessi francesi e penalizziamo quelli italiani», ha detto il presidente dell’Acri ricordando la tenuta delle banche della Penisola davanti alla crisi iniziata con il crac subprime: per nessuna «è stato necessario mettere a punto un intervento pubblico di salvataggio come invece è avvenuto in altri grandi Paesi d’Europa». Oggi, però, sono Francia e Germania a scrivere regole che paiono fatte apposta «per penalizzare» i nostri istituti. In trincea l’Abi di Mussari che condivide le «gravi e urgenti» preoccupazioni di Bazoli. «Siamo certi che il nostro Paese saprà reagire come è necessario che sia, diversamente i gravi scenari delineati non saranno scongiurabili». Le banche vogliono rimanere vicine all’economia reale ma «occorre che ciò sia consentito o meglio non ci sia impedito».
Ghizzoni, ancora impegnato ad affinare il piano industriale di Unicredit e l’ormai scontato aumento di capitale, ha bollato come «incomprensibili» le decisioni di Bruxelles. Tornare indietro -ha avvertito il banchiere - sarebbe però « un esercizio tardivo», visto che i mercati hanno già metabolizzato l’annuncio.
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