Una rivalutazione già tentata (e fallita)

Fu De Benoist il primo a tentare l'operazione trent'anni fa: all'epoca la sinistra lo stroncò e la destra non capì

Gramscismo di destra. L’espressione ha ormai passato i trent’anni ma continua, a quanto pare, ad alimentare ambiguità e timori. A coniarla furono i diffidenti recensori di un ponderoso volume uscito nel 1977 in Francia, Vu de droite, insignito un anno dopo del prestigioso premio di saggistica dell’Académie Française. L’autore dell’opera, ambiziosamente sottotitolata «Antologia critica delle idee contemporanee», era Alain de Benoist. All’epoca, il brillante ed eterodosso pensatore iniziava a farsi la fama di portavoce di una «nuova destra», che poco aveva a che spartire con il nazionalismo transalpino delle Leghe patriottiche, dei collaborazionisti di Vichy, di Poujade o dell’Oas e nel contempo era ben lungi dall’accontentarsi della linea «legge, ordine e nostalgie di grandeur» che il gollismo aveva adottato dopo aver sgominato il confuso ribellismo del Maggio ’68.

Nel suo libro, de Benoist dedicava ad Antonio Gramsci un capitolo in una sezione («Controfigure») dedicata ad alcuni numi tutelari della sinistra - Marcuse e i francofortesi, Althusser, Garaudy, Illich, Morin - nelle cui idee si mescolavano aridi frammenti di ortodossia e analisi acute, valide ben al di là del contesto ideologico che le aveva partorite. In Gramsci, gli elementi fecondi si riassumevano, per de Benoist, nel ripensamento del ruolo dell’ideologia, concepita come un dato molto influente sulla mentalità degli individui e dunque in grado di forgiare, se trasmessa nei modi e tramite i canali adeguati, una solida base di consenso all’azione di un partito politico.

L’insegnamento principale che scaturiva dalle pagine gramsciane era che «nelle società sviluppate non vi è presa del potere politico senza presa preventiva del potere culturale», poiché «la cultura è il posto di comando dei valori e delle idee», e la penetrazione culturale nella società civile, con la conseguente affermazione dei modelli di pensiero e di comportamento adeguati agli scopi a cui si mira, è l’indispensabile premessa per garantirsi il successo nella società politica.

De Benoist suggeriva perciò a chi condivideva le sue idee di far proprio il metodo gramsciano, abbandonando la pretesa di giungere al potere per l’immediata via del consenso elettorale o, peggio, tramite la scorciatoia dei colpi di Stato e iniziando il certosino lavoro di costruzione di una egemonia culturale volta a diffondere nell’immaginario collettivo i valori che la Nuova Destra (di fatto, assai più nuova che destra) sosteneva.

Quando l’opera debenoistiana fu tradotta in italiano dalla piccola casa editrice Akropolis nel 1981, buona parte della sinistra si allarmò per il presunto tentativo di appropriazione di uno dei suoi miti e reagì brutalmente. Stroncò il libro senza leggerlo e aprì una caccia alle streghe contro il suo autore, descrivendolo come un estremista che cercava di mimetizzarsi e ignorando il percorso evolutivo che lo aveva portato dal radicalismo dell’adolescenza all’apertura a stimoli ideologicamente trasversale. Ci vollero molti anni prima che uno studioso socialista, Pierre-André Taguieff, prendesse atto di quel coraggioso itinerario, ricostruendolo in uno studio esemplare per equilibrio e documentazione (Sulla Nuova Destra, Vallecchi, 2004, con una bella introduzione di Danilo Zolo). La destra politica, come le è spesso accaduto, non capì. Non lesse, non meditò, diffidò (Gramsci era pur sempre un comunista...) ma nel contempo cercò di inserire il nome di Alain de Benoist nel suo striminzito pantheon intellettuale per guadagnarsi qualche briciola di legittimazione.

Il «gramscismo di destra» rimase così poco più di un’etichetta, buona per polemiche effimere. Di fronte all’odierno risorgere di tenzoni giornalistiche sull’insolito connubio di termini, c’è da temere che quell’episodio non abbia insegnato granché, né a sinistra, né a destra. Peccato...

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