Rivolta soffocata nel sangue in Siria: 60 morti in poche ore

Oltre 60 persone sono state uccise ieri dalle forze di sicurezza durante le proteste anti-regime che hanno scosso quasi tutte le città siriane, da Damasco ad Aleppo e Banias, stabilendo il triste record del giorno più sanguinoso dall’inizio della mobilitazione cinque settimane fa.
Ignorando quasi del tutto le drammatiche notizie che per tutto il pomeriggio sono apparse sugli schermi delle tv satellitari, l’agenzia ufficiale Sana ha in serata ricordato «ai cari cittadini» che le autorità possono concedere il permesso a manifestare in modo pacifico solo a chi richiede in anticipo l’autorizzazione al ministero degli interni. Per le autorità, dunque, i dimostranti non avevano presentato in tempo la domanda per ottenere il permesso, così come invece stabilito da uno dei tre decreti firmati l’altroieri dal presidente «riformatore», Bashar al Assad.
A decine di migliaia hanno invece sfidato il divieto, imposto nei giorni scorsi dallo stesso ministero degli interni, di non manifestare affatto, e hanno risposto «presente» agli appelli circolati da giorni sui social network per «raggiungere la libertà». Nel «Venerdì Santo» di preghiera comunitaria per i musulmani e di raccoglimento per tutti i cristiani è anche apparsa, per la prima volta dall’inizio della mobilitazione a metà del marzo scorso (oltre 220 vittime fino a ieri), una piattaforma comune degli organizzatori delle proteste.
In un comunicato firmato dai «Comitati locali per il coordinamento» si afferma che «tutti i prigionieri politici devono essere liberati, l’attuale apparato di sicurezza deve essere smantellato e sostituito con uno che sia regolato da una legislazione precisa e che operi nel rispetto delle leggi».
Il testo, preparato nei giorni scorsi via email, Facebook e Twitter da giovani attivisti, oppositori in Siria e intellettuali all’estero, si invoca «libertà e dignità per il popolo siriano», ma si afferma che quest’ultimo rischia di rimanere «un semplice slogan senza un cambiamento pacifico del regime e l’instaurazione di un sistema politico democratico».
All’ormai ennesimo giorno di mobilitazione anti-regime, le autorità avevano risposto preparando un massiccio schieramento a Damasco e nelle altre principali città del Paese, sin dalle prime ore della mattina, di agenti in borghese delle forze di sicurezza, di militari dell’esercito, di squadre di lealisti armati di bastoni, di checkpoint.
Quando i fedeli cristiani, membri della minoranza confessionale più protetta dal regime dominato da una minoranza di un’altra minoranza (gli Assad e gli altri clan alawiti), erano già rientrati nei loro quartieri dopo aver assistito alle messe del Venerdì Santo celebrate in sordina e a porte chiuse, sono cominciati ad affluire nelle moschee decine di migliaia di fedeli-manifestanti.
Damasco è stata percorsa da un’inedito corteo all’interno della cintura di protezione eretta dalle forze dell’ordine nel quartiere di Midan, roccaforte del conservatorismo sunnita. Un centinaio di persone sono uscite dalla moschea locale gridando «Il popolo vuole la caduta del regime!».
In quelle stesse ore si sono radunati a migliaia i curdi a Qamishli, Amuda, Ayn al-Arab, località nella regione remota del nord-est al confine con Turchia e Iraq, sfilando in corteo con striscioni in arabo e curdo che ribadivano «l’unità del popolo siriano». Un migliaio di giovani sono tornati in piazza anche a Latakia, nel nord-ovest e seconda città, dopo Daraa nel sud, a esser presidiata dall’esercito. Mentre in diecimila hanno occupato le strade di Salamiya, località a maggioranza ismailita (branca dello sciismo) nei pressi di Hama.

Col passare delle ore sono giunte le prime notizie di feriti, quindi di morti, uccisi - sembra - anche da cecchini appostati sui tetti dei palazzi: ad Azraa, località nei pressi di Daraa, a Homs a nord di Damasco, a Duma, Jawbar, Zamalka e Daraya (sobborghi della capitale).

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