Rourke sul ring di Hollywood: con l'Oscar non si va in Paradiso

L’attore in lizza con The Wrestler, dove interpreta un vecchio lottatore disposto a rischiare la vita per l’ultimo combattimento. Il regista: "Il film è stato pensato per lui". L'attore: "Anni fa lo avrei mandato a quel paese"

Rourke sul ring di Hollywood: 
con l'Oscar non si va in Paradiso

Adélaide de Clermont-Tonnerre

Los Angeles - L’attore che accarezzava Kim Basinger con cubetti di ghiaccio che le si fondevano sulla pelle in Nove settimane e mezzo, il formidabile interprete di Angel Heart era da anni in una zona d’ombra: droga, baruffe, chirurgia, insulti ai padroni delle major, rifiuto di Platoon e degli Intoccabili, silenzio con Dustin Hoffman che gli offriva in Rain Man il ruolo poi andato a Tom Cruise... Mickey Rourke ha praticato l’autodistruzione e oggi non ha più il bel viso da amante. In The Wrestler buca lo schermo perché è gonfio e ha i capelli come passati al micro-onde. In questo film superbamente umano dalle scene d’insostenibile violenza, incarna un lottatore solitario, vecchio arnese disposto a un ultimo combattimento che può essergli fatale.

Del primo incontro col regista Darren Aronofsky, Mickey Rourke dice senza scherzare: «Voleva il mio sangue». Aronofsky teneva tanto a Rourke perché, senza le sue cicatrici e il suo viso sfigurato, niente film. L’ammette: «Doveva essere lui. Lo sceneggiatore scriveva con la foto di Rourke sul computer. Personaggio e interprete coincidono: gli è occorsa la vita per girarlo».

I due conclusero il patto, indispensabile per permettere all’attore di dare il meglio di sé: «Quindici anni fa non avrei sopportato l’esigenza di Darren. Avrei gettato un tavolo dalla finestra, mandandolo a farsi fottere». Temperamento esplosivo che viene da un’infanzia dolorosa: «Sono cresciuto nella vergogna e nella solitudine. Sono stato abbandonato da mia madre e picchiato dal patrigno poliziotto: non sopportavo l’autorità, volevo essere un duro».

Allora nulla meglio del pugilato, lasciato a diciassette anni per commozione cerebrale. Dal 1989 al 1994, Rourke tornò sul quadrato: «Non rimpiangevo il cinema». Erano previsti tredici incontri da professionista, ma all’ottavo rinunciava: «Ero imbattuto, ma i medici mi dissero di smettere, se tenevo alla vita», Proprio come Randy l’Ariete, ex-gloria del wrestling, che abita in una roulotte, fra due combattimenti marginali e i ragazzini all’angolo, gli ultimi fan.
Ogni somiglianza con un attore realmente esistito non è casuale: «Come Randy, sono stato il vinto che non si rassegna. Per quattordici anni. Ero in bolletta, cercavo di rimediare agli errori, ma com’è stato duro», snocciola questo reduce dal volto rabberciato: dopo il pugilato, il naso è stato rifatto con un pezzo d’orecchie... Ferite di cui il film s’è nutrito: «Darren m’ha lasciato contribuire alla sceneggiatura. Ho parlato del tabù del doping. Ho frequentato abbastanza i culturisti per farlo». E la sua prova d’attore è estrema come la sua vita. L’ex pugile ha preso venti chili ed è passato per tre risonanze magnetiche: al collo, al ginocchio e alle vertebre lombari. Sempre la stessa rabbia nell’ex bambino picchiato, che ammette di dover la sopravvivenza a uno psicoanalista e a un prete. Visto il film, il mondo del wrestling gli ha offerto un grande combattimento. Lui ha rifiutato: «A cinquantasei anni non voglio di nuovo buttare via tutto».

Dopo tanti alti e bassi, che cosa significherebbe una statuetta come migliore attore? Aveva detto pochi giorni fa: «Un Oscar non si mangia e nemmeno scalda il letto. Né mi aprirà le porte del paradiso. E poi l’avrà Sean Penn! Non gliene vorrei, è un amico. Certo, l’Oscar sarebbe un immenso onore, ma mia madre e mio fratello, le persone più importanti della mia vita, non potranno essere lì con me.

Lo condividerei col mio cane». Ma la notizia della morte del suo chihuahua, Loki, a diciotto anni, ha già fatto il giro del mondo. Ricevendo, alla vigilia dell’Oscar, lo Spirit Award come miglior attore, Rourke l’aveva dedicato a Loki.

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