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Il rugby alla conquista del resto d’Italia

C’è una cosa che colpisce in modo particolare parlando di Italia-Argentina di rugby in agenda oggi all’Olimpico di Torino. E non è tanto il fatto che questa partita abbia sfrattato addirittura il campionato di calcio (evento epocale, con Juve-Genoa appositamente anticipata a giovedì sera), quanto il fatto ancora più storico che la nazionale di rugby si esibisca a Torino per la prima volta in ottant’anni di storia. Possibile? Sì, almanacchi alla mano si scopre che il capoluogo piemontese era una delle pochissime città italiane a non aver mai assistito ad una mischia azzurra. Strano? No, se si pensa che questo sport ha vissuto prima della guerra sull’asse Milano-Roma, che nella seconda metà del secolo scorso si è radicato completamente nella provincia veneta e nell’isola felice dell’Aquila, e che da quando siamo entrati nel Sei Nazioni il rugby è diventato completamente romanocentrico.
Qualche cifra? Ventisei partite su 45 giocate in Italia dal 2000 ad oggi sono state ospitate nella capitale, comprese ovviamente tutte quelle del Torneo. Il resto, tutte amichevoli minori (escluse le 4 organizzate a Genova), distribuite da Monza a Biella, da St.Vincent a Prato. E le altre grandi città? Off limits, a partire da Torino ovviamente, ma Bologna non vede la nazionale dal ’97 (e con gli All Blacks riempì il Dall’Ara), Napoli dal ’90, Milano addirittura dall’88 e negli ultimi 50 anni l’ha ospitata soltanto tre volte...
Ma adesso finalmente si spera di voltar pagina, anche perché il rugby ha il potenziale per conquistare sempre più pubblico. Oggi a Torino la scommessa potrebbe essere quella di fare più spettatori della Juve o del Toro. E l’anno prossimo per gli All Blacks si dovrebbero spalancare anche le porte di San Siro. Un passo avanti per recuperare città e regioni uscite dal grande giro. Le famose due velocità del nostro rugby si stanno infatti sempre più accentuando: da una parte una nazionale che fa il boom nei due mesi del Sei Nazioni, che riempie il Flaminio, che diventa appetibile anche per la tv, e dall’altra un movimento sempre più rinchiuso su se stesso, un campionato invisibile, spezzettato da mille interruzioni tra coppe europee, test match, lo stesso Sei Nazioni, un campionato giocato da dieci squadre di otto città, con la contraddizione di due derby a Parma e a Roma e del resto della truppa dispersa nella provincia lombardo-veneta.
Un rugby, insomma, che ha bisogno di crescere anche in questa sua componente, per riportare al vertice città dal grande passato (Milano, Genova, Napoli, L’Aquila, la stessa Torino fino ai tempi dell’Ambrosetti anni Settanta) e cercare di riempire gli stadi anche fuori dal clou del Sei Nazioni, come è successo sabato scorso a Padova. E forse la più grande differenza tra l’Italia e le altre cinque nazioni sta proprio in questo, nel movimento che fatica a tenere il passo del vertice, di una nazionale che non dev’essere una cosa di élite.
Oggi c’è l’Argentina che un anno fa ha stupito il mondo in Francia (bronzo mondiale) e che negli ultimi anni ha fatto passi da gigante. «Affrontiamo una delle prime linee più forti del mondo», come avverte Nick Mallet, ma abbiamo tutto per non farla passare. Come abbiamo fatto in giugno a Cordoba (13-12 per noi). Abbiamo bisogno di vincere anche per non uscire dalle prime dieci posizioni del ranking mondiale, per dimostrare che questa non è una nazionale bella ma senz’anima, ovvero senza risultati. «Dobbiamo vincere per continuare a crescere - taglia corto capitan Parisse -, come abbiamo fatto la settimana scorsa con l’Australia. A noi giocatori, onestamente, del ranking non importa molto. L’importante è fare bene per noi, e per tutte le persone che ci sono sempre vicine quando scendiamo in campo».

Già, quelle di un’Italia da conquistare anche lontano da Roma.

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