Conoscendo l’eccentrica planimetria degli edifici di cui costella le sue pagine col puntiglio e la severità di un cartografo, mi aspettavo che Carlos Ruiz Zafón, in quella Los Angeles che ha eletto a sede permanente, fosse andato alla ricerca di un luogo insolito, per non dire maledetto. Non vi so dire quindi il mio stupore quando, con un sorriso fanciullesco sulle labbra, mi ha fatto strada in un superattico che sovrasta il Sunset Boulevard.
«Cosa si aspettava», mi chiede accorgendosi del mio disagio, «che detestassi le autostrade della California, per caso?». «Non dico questo, ma credevo avesse scovato un luogo simile alla Barcellona piovosa dell’Ombra del vento», cerco di giustificarmi. «E perché mai? Non tutti siamo come Pierre Louys che si creò, per la gioia dei suoi fans, una casa-museo per confondere le idee sulla sua solitudine. Uno scrittore ha bisogno di un posto tranquillo per evocare le immagini che lo assediano».
Los Angeles sarebbe un posto tranquillo?
«Perché no? L’assenza del passato è una cartina di tornasole. Permettendoci di far tabula rasa, ci consente di affrontare il futuro».
Come sceneggiatore?
«Anche. Ma non parliamone, vuole? D’altronde lei non è qui per questo. Sbaglio?».
Non sbaglia, non sbaglia. Mi parli piuttosto del Cimitero dei Libri Dimenticati, la chiave di volta di...
«...dell’Ombra del vento come del Gioco dell’angelo? Andiamo, amico mio, non mi deluda! Ha fatto davvero tutta questa strada per così poco? Non le è mai venuto il dubbio, o la certezza, che si scrive sul serio solo dopo che ognuno di noi è diventato un camposanto dei pensieri formulati da chi ci ha preceduto in...».
In cosa?
«In questo scarno perimetro che si chiama vita. Dove l’eccezione è il sole mentre la prassi è la pioggia».
Il solo elemento propizio all’evocazione dei fantasmi?
«Claro que sì. Perché la pioggia non è altro che acqua e l’acqua è uno dei quattro elementi. Come hanno detto i presocratici, e come ci conferma Agrippa».
Agrippa?!
«Di Nettesheim. Ha letto il De occulta philosophia?».
Le confesso che l’ho solo sfogliato...
«Ah, ah! Avrà avuto paura di affrontarlo. Capita, la prima volta. A differenza del sottoscritto che ne ha fatto la sua Bibbia. Non l’avessi fatto, non sarebbero mai nati né L’ombra del vento né Il gioco dell’angelo e sarei ancora confinato nel sottoscala dei libri per la gioventù».
Cosa le ha insegnato allora quell’alchimista, quell’astrologo, quel sedicente stregone?
«Che i poteri occulti dal cielo sono scesi in terra e a volte sembrano, ma non sono, delle persone reali».
Come l’enigmatico Julian Carax in cui si identifica, fin quasi a sovrapporsi a lui in un unicum inscindibile, il suo eroe Daniel, figlio del libraio Sempere?
«Certamente. Perché ognuno di noi è un puzzle, non un individuo. Il guaio è che vogliamo scordarcene. È questa l’origine del male nel mondo».
In che senso, scusi?
«Ogni essere umano coltiva l’assurda ambizione di avere un ego assolutamente originale e perciò crede di potere, pardon di dovere, imprimere un segno personale nel tempo».
È questo l’errore?
«No, è il peccato originale. C’è già cascato Lucifero, ovvero Andreas Corelli, l’editore scomparso cent’anni prima della nascita di David Martin, il mio alter ego del Gioco dell’angelo».
Cosa dovremmo fare allora per non incorrere in quel tragico sbaglio?
«Dobbiamo mettere sulla carta un pensiero, chiamare a raccolta Conrad per il mare, Charlotte Brontë per le sue case stregate, Wells col suo uomo invisibile...».
E poi?
«E poi non abbassar mai la guardia».
Seguendo un procedimento particolare?
«Niente affatto. Chi dice che per evocare un luogo sinistro si debba per forza pensare alla Sagrada Familia se si è spagnoli o alla Sainte Chapelle se si è nati a Parigi?».
Nessuno, eppure certi luoghi inducono più di altri alla speculazione, non trova?
«Sono in totale disaccordo con lei. A volte basta un cancello invaso dalla ruggine a precipitarci in un Eden maledetto mentre, attorno a noi, i nostri simili banchettano allegramente con hot dog e Coca Cola».
Lei ha scritto: «ogni dottrina è in pratica un racconto». Devo quindi dedurne che ogni religione, per Zafón, è una forma e niente più?
«Sì, ma che splendida forma! Tutto è allegoria attorno a noi e tutto, al contempo, è letteratura. Che si esprima in un libro, in un film, in una musica. Prenda, ad esempio, l’incredibile caso delle Torri Gemelle...».
La tragedia dell’11 settembre?
«No, il permesso dato da Obama a far sorgere una moschea a due passi da Ground Zero! Una decisione che, se oggi fosse in vita, farebbe la felicità del padre della “Commedia Umana”».
Honoré de Balzac...
«Già, proprio lui. Un legittimista che di notte sognava, approvandone entusiasta l’operato, l’artefice della Notte di San Bartolomeo, l’omicida Caterina de’ Medici».
Sta scherzando?
«Ma niente affatto! Purtroppo il sangue, l’atroce e l’orrore riempiono a volte persino le vite dei santi. Pensi a Giovanna d’Arco e mi darà ragione».
Il che non impedisce che si debba combattere il delitto, non crede?
«Certamente. Quel che le cito è un caso limite. Ci rifletta su: concorda o no che è assai sottile la linea di demarcazione tra il bene e il male?».
Non c’è dubbio.
«E quindi che persino Jawahal, il demone oscuro che perseguita i bambini nel Palazzo della mezzanotte ha qualche attenuante?».
Zafón, per favore, in questo caso si tratta di invenzione bella e buona!
«Touché, mi sono lasciato trasportare. Anche se, come dice Rex Stout, uno scrittore che adoro, “inventare, in latino significa trovare”».
Guarda, guarda. Non avrei mai detto che fosse un cultore di romanzi polizieschi...
«Ma ogni libro che si rispetti è da collocare in questa categoria.
A chi, per esempio?
«Alla narrativa di Zafón, in cui l’eroe è il solo colpevole. Magari di innocenza, come chi le sta davanti».
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