Una volta scalfiva. Adesso scalfareggia. Eugenio Scalfari si cala nel pozzo del tempo e porta a galla un suo articolo del lontano 1976. Un pezzo che, va da sé, è adeguato alla nostra epoca. Anzi, la fotografa perfettamente, come il guru della sinistra chic ci spiega sull’ultimo numero del Vetro soffiato, la rubrica che tiene sull’Espresso. «Ho sotto gli occhi l’elenco dei membri della commissione parlamentare inquirente - scriveva accigliato il 25 gennaio 1976 sul neonato quotidiano la Repubblica - queste venti persone sono secondo me, dal punto di vista della moralità pubblica, fra coloro che si sono macchiate del più grave dei reati e cioè di spegnere nei cittadini di questo Paese ogni fiducia e ogni speranza nell’istituto parlamentare». Il motivo? Facile a intuirsi. «Questi deputati e questi senatori stanno facendo da anni mercato del potere a essi affidato e lo stanno facendo senza nemmeno il pudore di nascondere le loro intenzioni. Hanno fatto di tutto; hanno tolto dalle mani dei magistrati processi sui quali non avrebbero avuto, in base alla legge, alcuna competenza... hanno avocato tutto e hanno insabbiato tutto».
Quella giunta, spiegava il giornalista filosofo, toglieva la speranza ai cittadini. Dimenticava però di soffermarsi sulla propria biografia, lo scrittore punto di riferimento per almeno due generazioni di progressisti: quel parlamento, così tollerante, anzi così scandalosamente tollerante con i propri membri, lo accolse a braccia aperte per permettergli di schivare il carcere.
È una storia nota e la sua origine è anche nobile: Scalfari firmò con Lino Jannuzzi una memorabile inchiesta su un tentativo di colpo di Stato chiamato «piano Solo». Il generale Giovanni de Lorenzo querelò la coppia e i due furono condannati rispettivamente a 15 e 14 mesi di carcere. Invano il pm Vittorio Occorsio, che era riuscito a leggere gli incartamenti prima che il governo ponesse il segreto di Stato, aveva chiesto la loro assoluzione. Scalfari e Jannuzzi si ritrovarono con un piede in cella. Che fare? La soluzione la trovò il Psi che li candidò e li ricoprì con un’armatura impenetrabile: l’immunità parlamentare. Scalfari diventò deputato, Jannuzzi senatore. Insomma, la giunta che diceva sempre di no alla magistratura ridiede la speranza al giornalista in odore di manette.
È sempre stato così: la corporazione dei parlamentari difende i suoi, innocenti o colpevoli che siano. Scalfari rimase a Montecitorio quattro anni. Una legislatura abbastanza incolore, grigia, riempita da un paio di episodi. Nel ’69 un vigile provò a fargli una multa alla Stazione Centrale di Milano e lui gli avrebbe risposto così: «Lei non sa chi sono io». Appunto, un abitante del Palazzo, protetto da un recinto invalicabile. Poi quando gli extraparlamentari assaltarono il Corriere della Sera lui si complimentò con loro: «Questi giovani ci insegnano qualcosa, l’assalto alle tipografie può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate a nascondere le informazioni». Lui, intanto, preparava la sua.
Dopo essersi citato in lungo e in largo e dopo aver perso la speranza nel lontano ’76, Scalfari tira dritto e la riperde oggi dopo aver visto che «la giunta ha sollevato il conflitto di attribuzione per bloccare il processo Ruby e trasferirlo al Tribunale dei ministri». Trentacinque anni di storia per arrivare al solito, impunito di Arcore. E dimenticarsi di quando fu lui, Eugenio Scalfari, a nascondersi dietro lo scudo dell’immunità.
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