Capiva bene Leonardo Sciascia, più di ogni altro e in tempi in cui non si era ancora concepita la scellerata illusione di affidare alla magistratura la soluzione dei problemi della società, che etica e politica non possono stare insieme. In questo, egli era stato il miglior lettore di Benedetto Croce, nemico di ogni fantomatico «partito degli onesti». Per Croce «il vero politico onesto è il politico capace».
Oggi che, come mai prima, la politica è umiliata fino a vedere rivoltato questo principio nella esaltazione dell’assoluta incapacità, con l’aggravante di una millantata onestà, per il puro tornaconto personale, favorito dalla identificazione di nemici presunti disonesti, in un intreccio inestricabile di finzioni (di cui la tragicomica maschera è Di Pietro con i suoi familiari), Sciascia sarebbe disorientato e impotente.
È morto vent’anni fa, prima di Tangentopoli e del processo Andreotti, che lo avrebbero visto «implacabile osservatore», come si annunciò nel profetico libro A futura memoria. Con incredibile anticipazione aveva individuato il fenomeno, oggi inarrestabile, dei «professionisti dell’antimafia», applicandolo a personalità di incomparabile dignità e decoro rispetto ai loro eredi; e aveva già delimitato i confini della metastasi giudiziaria, tra incriminazioni arbitrarie e intercettazioni, con questa semplice considerazione: «Io simpatizzo con il poliziotto, e cioè con l’investigatore. Che non è l’Inquisitore, ma uno che cerca la verità di fatto, al di là dei pregiudizi».
Oggi la verità di fatto non esiste più, i pregiudizi hanno travolto la verità. Io sono vissuto e sono stato politicamente attivo negli anni immediatamente successivi alla morte di Sciascia e ho dovuto moltiplicare all’inverosimile il suo metodo, ispirandomi al suo insegnamento.
Nessun intellettuale (parola a lui sgradita) mi è sembrato più lucido e mi è stato di maggior conforto di Sciascia; ed egli era a tal punto consapevole del primato della ragione da porre come epigrafe del suo A futura memoria un pensiero di Georges Bernanos: «Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli».
Oggi, che è tempo di inganni, Sciascia potrebbe sembrare uno scrittore inattuale, incapace di illudersi e indisponibile a illudere. Perché, invece, appare più di ogni altro, più di Moravia, più di Pasolini (e di altri scrittori mossi da una fortissima passione civile) attuale? Perché, come Guicciardini, Sciascia vede l’uomo com’è, non come lo vorrebbe, o come se lo figurano utopisti e visionari, parlando in nome di Dio o di un bene astratto e irraggiungibile.
Per Sciascia l’uomo è l’uomo di Montaigne con i suoi limiti e i suoi dubbi, senza illusioni. Così poteva dire con disarmata onestà e senza negare agli uomini la speranza: «Palermo mi appare irredimibile, nella violenza e nel sangue. Commisurata alla vita che mi resta, mi pare una definizione esatta. Ma non può e non deve restare esatta per sempre».
Mi colpisce leggere questa affermazione di Sciascia, credo dell’ultimo tempo della sua vita, se appare registrata su Il Resto del Carlino del 21 novembre 1989, perché negli stessi giorni, ospite tra le prime volte al Maurizio Costanzo Show, mi trovai a dire, e non certo per cinismo o disillusione: «Per Palermo non c’è speranza». Sono passati vent’anni, e mi trovo incredibilmente a essere il sindaco di Salemi, in una Sicilia che non mi è consentito considerare irredimibile come vorrebbero molti «professionisti dell’antimafia».
Si può dire che eserciti le mie funzioni con lo stesso spirito di Sciascia, ricordando che, diversamente da altri, egli accettò di «sporcarsi le mani con la politica», prima consigliere del Partito comunista al comune di Palermo, poi deputato radicale. Nessuna contraddizione nel tentativo estremo di non lasciare niente di intentato, perfino mettendosi in gioco direttamente.
Da troppo tempo si pensa che la soluzione dei problemi possa essere affidata a mai realizzate riforme. Non è così. Sciascia lo aveva capito bene, e per questo aveva accettato il coinvolgimento politico. «Le riforme, che volete che vi dica? Io ci credo poco, perché la prima riforma deve partire da dentro di noi: se non c’è questo, è inutile fare riforme, anzi bisogna invocare che non si facciano, perché quello che si è fatto, in materia di riforme, ha portato le cose al peggio».
Parole profetiche. Il declino della scuola e della giustizia lo conferma in modo sconvolgente: nessuna riforma della scuola vale un buon insegnante. E una legge sbagliata può essere corretta da un buon giudice, come una legge giusta può essere male applicata da un cattivo giudice.
Sciascia esprime una fede assoluta nell’uomo. Così appare radicale il suo sconcerto per la scelta del governo di non trattare con le Brigate rosse in occasione del rapimento di Aldo Moro. Egli afferma, nella relazione di minoranza alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani: «Non si è fatto alcun credito, insomma, all’intelligenza di Moro: da valutarla quanto meno superiore a quella dei suoi carcerieri. Si poteva, senza venir meno a “posizioni di fermezza”, continuare a dialogare con lui: sia pubblicamente - nell’opporre ragioni alle sue, che erano ragioni e non farneticazioni - sia segretamente, cercando nelle sue lettere quei messaggi che era probabile e possibile nascondessero».
Nella posizione di Sciascia si rappresenta lo sforzo vano dell’uomo con il suo pensiero e la sua ragione davanti alla ragion di Stato che, implacabilmente, ed esemplarmente, in quella occasione prevalse. Sciascia non avrebbe potuto prevedere che allo stesso Andreotti, che più di ogni altro avrebbe interpretato quella ragion di Stato, sarebbe toccato di essere vittima di un processo non delle Brigate rosse, ma di un tribunale del popolo mascherato da giustizia istituzionale.
E possiamo veramente dolerci che, dopo L’affaire Moro, Sciascia non abbia avuto il tempo e la vita di scrivere un libro sul processo Andreotti.
Avrebbe continuato a muoversi nelle appassionanti antinomie del potere che, in diverso modo, hanno umiliato i potenti trasformandoli da deputati a imputati senza essere né i soli colpevoli, né, forse, colpevoli. Aveva osservato con acutezza, Alberto Moravia, che Sciascia partiva dalla chiarezza per arrivare al mistero, mentre bisognerebbe partire dal mistero per arrivare alla chiarezza.
Ma mistero, come osserva Vertone, non è confusione, quella «in cui sguazza gran parte della cultura italiana»: deriva da questa falsa chiarezza iniziale l’uso spesso millantatorio che gli intellettuali italiani si sono abituati a fare dei cosiddetti ideali, quella particolare forma di disimpegno civile che è passata nella nostra storia sotto il termine, opposto, di impegno.
Il quale è consentito e consiste nello scegliere una volta per tutte il bene, depositando una sigla, per poi disinteressarsi di tutto quel che avviene, senza cercare di capire, caso per caso, situazione per situazione. Parole profetiche, a distanza di vent’anni, nell’assistere all’impotenza dei dirigenti del Partito democratico davanti all’azione giudiziaria che, dopo troppi e interessati richiami alla «questione morale», li vede oggetto di una grottesca e irresponsabile persecuzione giudiziaria. Ancora manca Sciascia, e mancherebbe anche se ci fosse: i pochi di noi che hanno tentato di interpretarlo sono rimasti, più di lui, isolati e inascoltati.
Mi accorgo solo ora di quanto la sua lezione non abbia condotto a riflettere sul rispetto della persona e sul riscatto della Sicilia da una maledizione senza speranza. Il 10 gennaio 1987 Sciascia scrisse per il Corriere della Sera l'articolo su «I professionisti dell’antimafia». Vi sosteneva che l’antimafia può diventare strumento di potere, anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. La risposta fu una condanna senza attenuanti, con l’obiettivo di confinare Sciascia «ai margini della società civile». Certo, caro Sciascia, vivere nella tranquillità bucolica delle campagne racalmutesi è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. Certo, così vivendo si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco, dei «quaquaraquà».
Il dogma non ammetteva discussione. Ma Sciascia non si lasciò intimidire: «Il coordinamento antimafia? A occhio e croce mi pare che coordini interessi politici e stupidità». E ancora: «Sulla lotta alla mafia si è costituito un potere che non tollera critiche». Sono parole che potrebbero essere dette oggi, nella perfetta indifferenza dell’antimafia agli stessi effetti dell’azione giudiziaria che, a quanto afferma il procuratore nazionale Pietro Grasso, ha ottenuto importanti risultati: «Cosa nostra pare oggi destrutturata... Secondo le mie informazioni sembra oggi che la Cupola, vecchia commissione che raggruppa le principali famiglie, non funzioni più. Tutti i suoi membri sono in carcere».
Anche questo aveva previsto Sciascia. In una intervista a Salvatore Parlagreco nelle Cronache Parlamentari Siciliane pubblicata nel dicembre 1989, Sciascia aveva affermato: «È diventato difficile dire la verità... e chi può descrivere la Sicilia così come è oggi? Si è sotto il ricatto del giudizio di una certa Sicilia.
Nel momento in cui si tenta di raccontarla come vorresti, devi dare l’immagine di una Sicilia vera, si corre il rischio di passare dall’altra parte... intendo, dalla parte sbagliata».E noi, piuttosto che illuderci e illudere, preferiamo stare con Sciascia dalla parte sbagliata.
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