Scibona, il «paisà» di Cleveland che vuole imparare a fare l’italiano

nostro inviato a Mantova

Salvatore Scibona ha 36 anni, è nato e vive a Cleveland, ha scritto finora un solo ma acclamatissimo libro e nel 2010 il New Yorker, ovvero la Cassazione della letteratura, lo ha selezionato nella esclusivissiva lista dei venti scrittori più interessanti (notable) di lingua inglese sotto i quarant’anni, che non vale come aver firmato il manifesto «TQ - Trenta-Quaranta» qui da noi in Italia...
Scibona ha origini siciliane, una decina d’anni fa venne a conoscere la «sua» Italia, da un po’ di tempo ci torna regolarmente, parla un buonissimo italiano ed è legatissimo al ramo siculo degli Scibona, i lontani parenti di Mirabella Imbaccari, in provincia di Catania, dove nacquero i suoi bisnonni e dove ora vivono i suoi nipotini («Dopo più di un secolo abitano ancora nella stessa casa, è incredibile, proprio quella, solo con un piano in più...»). Dice di non vivere più l’Italia da turista ma – così ci confessa – «in qualche modo cerco di vivere come uno di voi», cioè per quello che può, da italiano. Per questo Scibona è un americano perfetto. Solo chi è capace di credere nelle proprie radici e di difenderle può permettersi il lusso di mantenere, ovunque, la propria identità.
Sull’«italianità», sull’emigrazione, sull’America degli italiani e sugli italiani d’America, Scibona ha costruito la sua unica opera, che a suo modo è un’opera unica: il romanzo The End, La fine, tradotto qualche mese fa da una piccolissima casa editrice italiana che si chiama 66th and the 2nd e che crede molto nella nuova narrativa americana e in Scibona in particolare, e che lo porterà al Festivaletteratura di Mantova domenica prossima, 11 settembre (ore 10,45; Palazzo di San Sebastiano). Vista la data, in qualche modo la giornata degli americani.
Forte di un bellissimo romanzo che partendo dalla «fine», gli anni Cinquanta, racconta a ritroso mezzo secolo di epica dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, e forte di una sorta di «culto» segreto da parte degli addetti ai lavori, Scibona arriva a Mantova come uno dei nomi più attesi e promettenti, almeno sulla carta del programma. Avendolo conosciuto, siamo sicuri che manterrà la promessa anche di persona, di fronte al pubblico, nonostante questo sia il suo primo festival in assoluto: «Sono molto curioso. Da noi negli Stati Uniti non esistono cose del genere. Credo dipenda dal fatto che la cultura protestante tende a generare un forte individualismo, quella cattolica invece ama fare le cose in comunità, assieme, in piazza: come nei festival. Non so, l’ho detto scherzando... forse qualcosa di vero però c’è...».
Qualcosa di vero ci dev’essere in questo italo-americano che adora la letteratura di Faulkner, Saul Bellow, Don DeLillo – «rimane il mio idolo» –, che per scrivere il suo romanzo ha impiegato dieci anni esatti, e per cinque ha riletto, ripensato e riscritto l’incipit, le 40 righe che introducono il protagonista della storia («La cosa più importante in un romanzo sono i personaggi, lo scrittore li deve costruire talmente bene e li deve controllare così tanto da far sì che una volta entrati in scena vivano da soli: io per loro sono il Dio creatore, ma loro poi sono esseri liberi»), e che per scrivere al meglio, per un mese, prima di arrivare qui a Mantova, ha vissuto in Umbria nella residenza per artisti della «Ranieri Foundation», a Civitella («Mi alzo dal letto, bevo il caffè e poi mi metto alla scrivania: posso pensare e scrivere tutto il giorno, senza ansie. Significa essere in pace con se stessi»). Qualcosa di vero ci dev’essere in questo giovane italo-americano che qualcuno già paragona a David Foster Wallace, o a Jonathan Franzen, o a Nathan Englander (anche loro, ai tempi, segnalati come notable dal New Yorker) e che pure non ha fretta di pubblicare un altro romanzo o di cambiare editore cedendo alle lusinghe e al denaro dei grandi gruppi e delle platee luccicati. «In questi giorni sto scrivendo un racconto, ambientato in Islanda... ma solo perché ho letto da poco l’islandese Halldór K. Laxness, premio Nobel nel 1955. Sai, sono convinto che così come “l’uomo è cioè che mangia”, così “lo scrittore è ciò che legge”. E poi, sì, sto scrivendo il mio secondo romanzo, una storia completamente diversa, una storia che non guarda al passato, come The End, ma al futuro». Già, il futuro.
Salvatore Scibona non sembra influenzato né da chi si è entusiasmato per Obama né da chi prova rimpianto per Bush. Non è preoccupato per il partito democratico, o per quello repubblicano. È un americano perfetto. Per questo semplicemente è preoccupato per l’America. «Vuoi sapere cosa penso del futuro? Mai visto così scuro. Il piano generale delle cose rispecchia sempre quello personale.

La maggior parte dei cittadini americani in questi ultimi anni ha cambiato così tante città, così tanti lavori, ha visto cambiare così tante cose, da aver perso la bussola e il proprio posto dentro l’America. E così l’America è cambiata così tanto, così tante volte, che non è più capace di trovare il proprio posto - la sua missione - nel mondo». Tempi brutti. «Appunto. Perfetti per scrivere».

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