Scola deve andare a scuola di politica cinematografica

Ettore Scola è un ottimo regista, benché il suo più recente film, Gente di Roma, non fosse all’altezza del nome. Ma è anche tra i padri nobili dell’Anac, mitica e molto di sinistra Associazione degli autori, sempre in prima linea nel difendere il cinema engagé da presunte censure di mercato e dal «bieco reference-system» voluto dall’ex ministro Urbani. È il solito gioco delle parti, e ci si potrebbe stare. Però il cineasta irpino forse esagera quando, nel difendere la collega Antonietta De Lillo da una querela per diffamazione, così riflette sulle insidie dell’«autocensura»: «Se miri alla Rai cerchi temi che possono andare bene per la tv pubblica di questo periodo. E se miri a Medusa non puoi fare a meno di pensare che fa capo a Berlusconi e, quindi, tutta un’altra fetta di tematiche si deve mettere via».
Insomma, trasferendosi dalla tv al cinema, l’esecrato duopolio avrebbe soffocato la libertà creativa degli autori, scolpendo sulla pietra una sorta di Decalogo riservato agli argomenti politicamente intoccabili.

Eppure Raicinema ha raccontato con Bellocchio una certa invadenza del Vaticano nonché il caso Moro, con Amelio l’handicap e ora la «dismissione» industriale; mentre la «berlusconiana» Medusa continua a produrre i film tosti, tutt’altro che rassicuranti, anzi spesso inquietanti, di Sorrentino, Chiesa, Garrone, Tornatore, Bertolucci. E naturalmente di Scola: come attesta il suo meritorio Concorrenza sleale, del 2001, drammaticamente incentrato sulle infami leggi razziali fasciste. Memoria corta o partito preso?

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