Se c’è il mercato, non c’è censura Invece ai tempi di Giulio Einaudi...

Non sosterremo, perché non sta bene, che a volte la censura è utile, checché se ne dica. Ma sosteniamo, perché è bene qualcuno lo sostenga, che tutta la polemica sulle presunte «censure» mondadoriane è falsa oltre che stucchevole. Per quanto riguarda la dichiarazione del premier su Gomorra, è una critica e non una censura, tanto è vero che il libro lo pubblica, lo distribuisce, lo pubblicizza, lo spinge in tutti i modi proprio la casa editrice «di famiglia», a dimostrazione che nel gruppo Mondadori/Einaudi oggi - accanto al criterio della qualità - vige il principio del mercato, non quello ideologico. E per quanto riguarda invece il coro di prefiche sollevato da decine di intellettuali indignati per le parole di Berlusconi, questo sì è incomprensibile. L’ultimo della fila, sul sito il primo amore, è Antonio Moresco. Il quale, tre giorni dopo aver pubblicato il suo nuovo romanzo da Mondadori, esprime solidarietà a Saviano «ma anche alle persone che lavorano all’interno della casa editrice» (solidarietà a cosa?); poi conferma, come hanno già detto Lagioia, Wu Ming, Camilleri e lo stesso Saviano (!), che «nessuno ha mai cercato di limitare la mia libertà di opinioni, di scrittore e di uomo» (quindi non si capisce dove sia il problema); e infine dichiara che «se la Mondadori diventasse un luogo militarizzato, io non ci potrei più stare» (che in fondo è quello che desiderano tutti: venire censurati per davvero, lasciare Mondadori, passare per martiri e correre da eroi da un altro editore che li accoglierà a braccia aperte sfruttando il battage mediatico...).
Comunque, il punto è: meglio un gruppo editoriale in cui vige la «spietata» legge del mercato e anche il diritto di critica, come è oggi la Mondadori, dove un bestseller vale più dell’opinione della proprietà; oppure un impero personale in cui domina l’ortodossia ideologica, come era l’Einaudi del «Principe» Giulio, il quale tra il saggio di un oscuro economista sovietico e un libro da un milione di dollari come Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano sceglieva il primo (e infatti il secondo, che lui non voleva, uscì solo perché ormai la casa editrice, fallita, non era più sua)?
E a proposito di censure (vere, non presunte) dell’Einaudi del tempo che fu, basterebbe ricordare: quando Pavese, nel ’48, entrò in rotta di collisione con l’intellighenzia di sinistra per la sua Antologia in cui non erano stati seguiti i dettami del neorealismo marxista; quando, nel ’49, si pubblicò obtorto collo, ostracizzandola, l’antologia Il fiore del verso russo dello slavista Renato Poggioli, subito fatto fuori da Einaudi; quando Ernesto De Martino e l’establishment radical-marxista dell’Einaudi batterono i pugni per non pubblicare le opere di Karol Kerényi, Julius Evola e Furio Jesi giudicate troppo «irrazionali», cioè «parafasciste»; quando l’editor dell’Einaudi Italo Calvino disse no a Il dottor Zivago preferendo ascoltare il consiglio di Palmiro Togliatti e Rossana Rossanda (e si dice anche di Pietro Ingrao), lasciando che il capolavoro «scomodo» uscisse - siamo nel ’57 - da Feltrinelli; quando l’edizione critica Colli-Montinari delle opere di Nietzsche proposta da Luciano Foà fu ferocemente respinta dal filone «einaudiano» che faceva capo al duo Panzieri-Cantimori e finì poi pubblicata da Adelphi; quando Minima moralia di Adorno uscì in un’edizione epurata e mutilata; quando fu vergognosamente bocciato un Fofi «eretico»; quando fu fermata la pubblicazione di un libro, già in bozze, di Giovanni Getto, reo di aver criticato gli studenti del Sessantotto.

Quando, leggendo il famigerato carteggio «zdanovista» uscito dagli archivi di Botteghe Oscure nel ’93, si ha l’impressione che Togliatti sia il direttore editoriale dell’Einaudi e Giulio Einaudi un dirigente del partito comunista...

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