«Se Dio è unico meglio il Nulla»

da Parigi

Con o senza Dio? Se è il Dio unico, meglio il Nulla per Régis Debray, intellettuale del calibro di Sartre, ora in prestito alla sociologia della religione. Leggete Dio, un itinerario (Raffaello Cortina) o Le Feu sacré (Fayard); se non reggete le quattrocento pagine, ci sono le quaranta di Ce que nous voile le voile (Gallimard). Saggistica, ma anche grande letteratura, come solo a Drieu riusciva.
Perciò la lettura che stasera Debray conduce su «Religione: evanescenza o perennità» a Milano e domani a Parigi all’Istituto italiano di cultura, è un evento, più dei precedenti incontri sulla religione organizzati da Università Vita-Salute San Raffaele e «Fondazione Corriere della Sera». Con Debray, un attore come Jean Sorel seguirà un percorso fra Rousseau, Voltaire, Nietzsche, fino a Debray stesso, che per il teatro ha firmato Julien le Fidèle (Gallimard), dove il dilemma Dio unico/Nulla radicale sfocia nella rivalutazione dell’imperatore diventato politeista proprio per essere nato monoteista.
«Giuliano - mi dice Debray - è sicuro d’esser nel vero, ma lascia che ebrei, persiani, galli e cristiani si diano alle loro bizzarrie, purché a uso domestico. Impensabile, anzi mostruoso per un neoconvertito: non salus est extra ecclesiam. Ma Giuliano non decreta la morte di Dio, misura realista quanto decretare la morte dell’uomo».
La tolleranza vera irrita i tolleranti finti: le avranno rinfacciato che quei tempi non sono i nostri...
«Nel IV secolo dell’era volgare, l’avvenire prometteva un’alba, la speranza aveva il volto di una fede; nel XXI secolo l’avvenire è una galleria ostruita, dove le rovine del passato ci impediscono di vedere e il progresso d’una volta non è più certezza d’un meglio, ma timore d’un peggio».
Giuliano nostro contemporaneo?
«È la mia scommessa. Se ciò disturbasse, si può cogliere in Giuliano un passante, sconsiderato ma considerevole, in una storia che può essere anche ciclica. Intempestivo visionario, Giuliano merita di uscire dalla bruma per essere guardato per un’ora o due. Questo spettro dalle orbite vuote, che dardeggiano infuocate, ha vaticinii che giungono fino a noi».
In ex ergo lei cita il Giuseppe Verdi del «Torniamo all’antico, sarà un progresso»; e nella dedica ricorda Ipazia, martire pagana. Anche Guido Piovene era giunto a queste conclusioni... Ciò e il suo richiamo alla laicità francese paiono strani in un’Italia sempre meno sociologicamente cristiana e sempre più politicamente democristiana.
«Le cito un esempio cui ho pensato quando in Francia infuriava la polemica sul chador a scuola. È la circolare di Jean Zay, ministro dell’Istruzione del Fronte popolare: “Sono vietati i segni distintivi. È politico ogni oggetto che, ostentato, induca a ostentarne uno di segno contrario”. Ora le sette prevalgono sui partiti, ma le passioni religiose somigliano a quelle politiche. La kippà chiama la kefia e la croce chiama la mezzaluna, come il pugno chiuso chiamava il braccio teso. Mutatis mutandis, a insegna di Coca e Nike, contro-insegna di Pepsi e Adidas».
Una “Nike” del libro, Mondadori, ora ristampa Guevara...
«L’ho frequentato negli ultimi anni, quando il Che aveva la vocazione, la bellezza della morte. Un fatalismo che veniva da lontano: senza risalire alla Sierra Maestra o al discorso suicida d’Algeri, affiora già nella decisione, in Congo, di partire per l’America andina, nonostante l’indebolimento, senza nemmeno passare per Cuba a prepararsi, idea dalla quale Fidél Castro lo dissuase a fatica. Poi ci fu la leggerezza di fiondarsi in una regione boliviana inesplorata, basandosi su un rapporto approssimativo».
Dunque?
«Mi ci sono voluti vent’anni per ammetterlo: il Che non andò in Bolivia per vincere, ma per perdere».
Perché?
«Per una battaglia spirituale contro il mondo e se stesso».
A Cuba lei ha incontrato italiani.
«Ricordo Alberto Moravia ascoltare Castro nel 1966, mentre parlava a un milione di cubani in piazza. Mi sussurrò: “Incredibile! Un vero Mussolini!”. Mi sembrava un paragone di cattivo gusto, così replicai: “Mi prendi in giro”. Lui mi guardò sornione ma contento e mi disse: “Allora non eri nato, ma era proprio così”. Poi sintetizzò: all’Avana l’intellettuale occidentale può offrirsi in un solo comizio due piaceri in uno, generalmente incompatibili: esser comunista e fascista. O piuttosto, poiché era vietato e impensabile sfiorare qualunque cosa potesse evocare il fascismo, ci si poteva offrire il piacere d’un arcaismo di contrabbando».
E Feltrinelli?
«Ci addestrarono insieme a Punto Cero. Come me, non capiva la chimica; anche meno di me, capiva la politica. Abbandonò poi casa editrice, miliardi e castelli, divenne clandestino imitando i partigiani e cantando Bella ciao. Come altri, cadde da valoroso sul campo delle analogie. Onore a lui».
Che cosa resta di quell’intensa stagione politica?
«Per delirante che sia stato il loro culto delle armi e dell’eroe, i comandanti, i guerriglieri latino-americani m’hanno aperto gli occhi sulla mischia umana. Grazie a loro, guardo ogni periodo di pace come a una quiete che precede la tempesta.

Se la guerra è un male e la pace una pausa, ne deriva questa regola di condotta: non voler la guerra, come la vuole il fascista; non credere nella pace, come s’illude il dormiente, considerandola normale e naturale. La storia ci dice che è solo un intervallo».

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