Sedici mesi di scricchiolii, oggi è il tonfo

C’era l’odore dei subprime in un mini-crollo di Wall Street, l’8 giugno del 2007. Da allora è stato un declino continuo, fino al panico di questi giorni

da Milano

Un anno vissuto pericolosamente, tra le voragini dei listini di Borsa. La crisi, rovente e ancora senza una prospettiva, sta generando panico e bruciando valori «macro» e «micro»: dà spallate ai grandi gruppi e ai patrimoni familiari, dà l’assalto alle casse pubbliche, mentre tanti lavoratori riempiono, in ufficio, le casse-simbolo del proprio licenziamento. Da gennaio, i listini di tutto il mondo sono bollettini di guerra. Tutti franati, qualcuno di più: come, curiosamente, l’Italia, praticamente il peggiore tra i Paesi sviluppati. Meno 42%, il Bel paese delle banche parsimoniose e dell’industria manifatturiera, quando l’America delle «bolle» (immobiliare, finanziaria) ha perso «solo» il 28% con il Dow Jones, il listino dei titoli industriali, e il 32% con il Nasdaq, che «misura» quelli tecnologici. L’Italia soffre la sua dimensione provinciale; piazze confrontabili, ma di maggior tradizione - Parigi, Francoforte, Londra - hanno subìto di meno: con cali rispettivamente del 37, del 37 e del 32 per cento. Nelle Borse, più grandi si è, più si è stabili: le dimensioni sono la più grande difesa dei mercati. Una prova? Le peggiori piazze sono quelle dei Paesi emergenti, più volatili, nel bene e nel male: Russia, Cina, India e Brasile hanno perso il 62, il 58, il 41, il 37 per cento. Economie ancora legate alla soddisfazione di consumi primari, con una crescita basata sull’industria, non sulla finanza.
Ma la crisi è più vecchia del 2008. I primi scricchiolii risalgono l’8 giugno del 2007, quando Wall Street accese per la prima volta - seppur con un «misero» calo del 2% - i riflettori sul mondo immobiliare e dei mutui a essi collegati. La parola «subprime» era conosciuta soltanto dagli addetti ai lavori, adesso la conoscono tutti. Sedici mesi fa nessuno pensava né a un virus, né a un contagio.
Una catena malefica paradossalmente innescata da elementi positivi: l’era dei tassi bassi ha spinto all’acquisto delle case, negli Stati Uniti come in tutto il mondo, anche le famiglie meno facoltose, assistite dal denaro del sistema bancario. La spirale dei valori immobiliari, alimentatasi da sé, ha valorizzato le garanzie, entusiasmando i proprietari, che sono stati indotti a prendere ancora più denaro in prestito. Il virus finanziario si è creato qui: gli istituti hanno preso i loro mutui e, anziché tenerli a lungo termine, come si faceva un tempo, li hanno rivenduti facendoli a pezzi, spacchettandoli e impacchettandoli, abbinandoli ai più svariati e incomprensibili strumenti finanziari. Un’altra parola diventata storica: derivati. Derivati da strumenti finanziari diversi, appunto. Collage, mix, cocktails.
Poi qualcuno, OltreAtlantico, ha provato a vendere la casa e ha improvvisamente capito che non valeva quello che lui credeva. Il panico, con i suoi dolorosi spilli, ha fatto scoppiare la bolla, e con essa tutta la piramide di carta che stava sopra la piramide di mattoni. Ma nessuno ha evocato il 1929. Non quando, nel marzo 2008, la crisi di liquidità manda in stallo Bear Stearns; nemmeno quando il governo degli Stati Uniti nazionalizza i colossi dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac.

La vera paura, quella di un 1929 di fame e di code al collocamento, arriva meno di un mese fa, quando l’onda raggiunge le banche, e Lehman Brothers dichiara bancarotta. E si comincia a temere che tutto sia a rischio, il portafogli, il lavoro, il conto corrente, la casa.

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