A sinistra ci pensa il partito a mettere in minoranza gli intellettuali

La sociologia - la scienza dell’ovvio, più spesso - ci dice, una volta tanto, una cosa interessante: il concetto di minoranza non è numerico, ma legato alle risorse disponibili. Sono minoranza quei gruppi che soffrono una forte decurtazione di risorse, tanto da trovarsi in una condizione di drammatica inferiorità, se non addirittura di «minorità», rispetto al gruppo, o ai gruppi, dominante/i.
Come dite? Leggendo queste parole vi sono venute in mente le primarie del Partito democratico? Vecchia oligarchia ed «emergenti», esterni all’apparato? Non stento a crederlo! In effetti il problema ha radici lontane e, volendo essere molto concreti, risiede nel fatto che Togliatti lesse Gramsci. La prendo alla lontana? Meno di quanto potrebbe sembrare, se solo si pensa che, in perfetto stile sovietico, Togliatti non avrebbe mai voluto pubblicare i Quaderni del carcere, per non fare sapere a chi era dovuta la linea del Pci.
Ma andiamo con ordine: il problema, si diceva, è che Togliatti ha letto Gramsci - come è noto fu il primo a farlo, maneggiando direttamente i manoscritti che gli portava Sraffa - e ha cercato di tenergli fede là dove Gramsci parlava del ruolo dell’intellettuale e dell’egemonia culturale che questi avrebbe dovuto creare in società. «Come ha sempre fatto la Chiesa attraverso i preti», aggiungeva ingenuamente. Riprendendo la nozione sociologica dell’attacco, quindi, il popolo era trattato come una «minoranza» da chi aveva le risorse, culturali e di potere, per farlo.
E nella cerchia intellettuale? Stessa dinamica, cercando innanzitutto di permeare gli ambiti in cui si faceva cultura, a partire dall’università, per avere la possibilità di stabilire un’ortodossia. Il passo successivo era la messa al bando delle minoranze, interne ed esterne. Il libro di Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze (Laterza, pagg. 164, euro 12) parla a nome delle minoranze interne, anzi di coloro che «per vocazione» - l’espressione gli viene suggerita da La vocazione di Matteo del Caravaggio, a cui è molto legato - si sono sempre sentiti tali: Hannah Arendt, Nicola Chiaromonte, Albert Camus, Aldo Capitini, Elsa Morante, Alex Langer. Sarebbe davvero paradossale se per presentare Fofi si ricorresse all’immagine del «vecchio saggio», del «grande maestro» o di qualcosa di simile, essendo proprio questo tipo di atteggiamento - qualcosa di simile al «culto della personalità» - a reiterare continuamente i vecchi apparati, in nome della continuità e delle discendenze.
Non è forse vero che d’Alema e Veltroni dominano da più di vent’anni il maggior partito di sinistra in quanto «dioscuri» di Enrico Berlinguer? Non era forse questo uno dei meccanismi tipici della nomenclatura socialista? Le minoranze di cui parla Fofi somigliano molto ai dissidenti, anzi lo sono.

Certo, nessuno li ha mai perseguitati e mandati nei campi di lavoro, ma è mancato loro il riconoscimento del valore della loro opera, della statura che li caratterizzava, dalla forza delle loro idee, solo perché non erano inclini ad unirsi al coro. Vi sembra poco?

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