Sinistra sull’Aventino col rimpianto di Scalfaro

Disertando l'aula la sinistra ha insultato la storia d'Italia. Ma è una "fuga" che non porta bene / Giordano Bruno Guerri

Sinistra sull’Aventino  
col rimpianto di Scalfaro

Un ricordo tira l’altro, e la riesumazione bersaniana dei Progressisti del ’94 sul palco dipietresco di Vasto porta con sé un’immedicabile nostalgia per Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del «ribaltone». «Ah, se ci fosse ancora lui al Quirinale!», mormorano gli uomini dell’opposizione aventinianamente sparpagliati per i caffè intorno a Montecitorio. Se Scalfaro fosse ancora presidente, chissà, forse il piano per ribaltare il governo senza passare dal Parlamento sarebbe andato in porto. Forse Scalfaro avrebbe preso per buona la tesi secondo cui la bocciatura del Rendiconto equivale ad un voto di sfiducia, e avrebbe chiesto a Berlusconi di rassegnare le dimissioni.

Non lo sapremo mai, ma non è questo il punto: il punto è che nelle opposizioni aventiniane, da Fli all’Idv passando, naturalmente, per il corpaccione del Pd, i malumori nei confronti di Giorgio Napolitano sono diventati palpabili, e qualche volta persino pubblici. La chiave per capire che cosa è successo sta in un breve passaggio del discorso di ieri di Berlusconi: «Il presidente sorveglia sul regolare svolgimento delle istituzioni e stimola i soggetti della politica senza fare politica». Cioè non si presta a manovre forse giustificate dalla lotta politica, ma costituzionalmente illegittime (secondo Italo Bocchino, «sarebbe stato opportuno che il Quirinale convocasse Berlusconi per individuare un percorso formale meno all’acqua di rose»). Ed è per questo, ha aggiunto il premier dopo una pausa teatrale, che l’«alta vigilanza» di Napolitano è stata «impeccabile». Il Quirinale, insomma, ha separato nettamente le preoccupazioni politiche dal rispetto delle regole.

È proprio quel che non ha fatto, invece, il Pd: la cui scelta di disertare l’Aula insieme a Idv e Udc mostra un disprezzo per le regole della buona educazione istituzionale che non fa onore ad un’opposizione che tante volte ha criticato Berlusconi e il centrodestra per vere o presunte infrazioni al galateo. I Radicali, giustamente, sono entrati a Montecitorio per «la fiducia e il rispetto che abbiamo nelle istituzioni»: ma, anziché accogliere con umiltà questa sana lezione di educazione civica, Rosi Bindi s’è infuriata, ha invocato sanzioni severe e s’è infine sfogata con il compagno presidente Fini: «Per quanto tempo ancora un partito come il mio deve subire un’umiliazione del genere?».

Già: per quanto tempo ancora il centrosinistra resterà prigioniero della camicia di forza dell’antiberlusconismo, umiliandosi al punto di insultare la storia d’Italia? Perché è un insulto alla memoria, alla politica e al buonsenso paragonare la situazione attuale a quella dell’Italia dopo il delitto Matteotti, e Berlusconi a Mussolini. Erano stati i talebani di MicroMega a proporre, lo scorso febbraio, «il blocco sistematico e permanente del Parlamento su qualsiasi provvedimento e con tutti i mezzi che la legge e i regolamenti mettono a disposizione, fino alle dimissioni di Berlusconi e conseguenti elezioni anticipate». In quell’occasione i più si misero a ridere, e soltanto in quattro aderirono alla proposta: Furio Colombo, Luigi De Magistris, Pancho Pardi, Giuseppe Giulietti.

Oggi quell’idea ritorna prepotente, tanto più che le pressioni sul Quirinale si sono rivelate inutili se non controproducenti. «Il nostro non è un Aventino, ma un segnale chiaro di dissociazione da un modo di procedere che colpisce nel profondo i meccanismi democratici», ha dichiarato ieri Pier Luigi Bersani. Ma la pezza è peggiore del buco: perché tradisce un vistoso imbarazzo politico nel parallelo con il ’24, e soprattutto perché capovolge ogni principio di diritto costituzionale. Come si può seriamente sostenere che un dibattito parlamentare sulla fiducia «colpisce nel profondo i meccanismi democratici»? Quali altri esistono per rovesciare un governo, se non il voto di sfiducia?

Persino Di Pietro lo ha capito, e a modo suo se n’è fatta una ragione: «Il Quirinale ha le mani legate finché Berlusconi avrà una maggioranza numerica in Parlamento, ma sa benissimo che questa stessa maggioranza non esiste più nel Paese». Che Napolitano sappia o non sappia chi ha la maggioranza nel Paese, di certo non ha gradito l’Aventino delle opposizioni: perché gli è sembrato un venir meno al galateo istituzionale, se non una vera e propria offesa al Parlamento, e soprattutto perché, scegliendo di abbandonare l’aula, Pd e compagni non hanno soltanto espresso una critica al governo e al presidente del Consiglio, ma hanno anche implicitamente sconfessato l’intero meccanismo della verifica messo a punto fra Quirinale e Palazzo Chigi all’indomani del «pasticcio» del Rendiconto bocciato.

Al Nazareno, naturalmente, s’affannano a smentire: il Pd non ha nessuna riserva su Napolitano, e al Quirinale non c’è nessuna freddezza verso il Pd.

Meglio così. Sarebbe davvero bizzarro se i partiti che hanno eletto Napolitano, cogliendone per primi i meriti e le qualità, oggi si ricredessero soltanto perché le loro forze non sono sufficienti a far cadere il governo.

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