Alessandro Massobrio
«Per me è stato il vero padre della fede, un autentico maestro. Se dovessi confessare la mia più grave colpa nei suoi confronti sarebbe, senza dubbio, quella di non averlo amato con la stessa intensità con cui lui ha amato me. Dal punto di vista dottrinale, poi, non si può non riconoscere che Siri è stato l'unica e sola figura di livello mondiale che Genova abbia posseduto negli ultimi 200 anni. La sua missione è stata quella di difendere la Chiesa, anzi, dirò di più, di difendere la Chiesa da se stessa».
È con questa sorta di professione di affetto e devozione che Don Gianni Baget Bozzo inizia a raccontarci la sua storia accanto, o meglio, all'ombra del Cardinale Siri, a partire dagli anni dell'immediato dopoguerra, attraverso il pontificato di Pio XII, per giungere infine agli anni roventi del Concilio.
Ho detto all'ombra, perché in questa lunga riflessione, che abbiamo cercato di riportare il più fedelmente possibile, Don Gianni si è come defilato dalla scena. Lasciando tutto lo spazio possibile al personaggio di cui andava raccontando non tanto gli atteggiamenti ed il comportamento quanto le posizioni dottrinali e teologiche. Come un pittore che, alle spalle del personaggio che sta ritraendo, finisce per raccogliere l'universo intero di cui quel personaggio diviene fulcro ed asse portante. Anzi, meglio sarebbe dire autentico spartiacque e segno di contraddizione.
Don Gianni, in quali circostanze fece conoscenza per la prima volta col futuro arcivescovo di Genova?
«Lo conobbi come professore di religione al liceo D'Oria, sul finire degli anni Trenta. Un professore dotato di una memoria straordinaria che gli permetteva di ricordare il nome di tutti i suoi allievi dopo soltanto una o due lezioni. Possedeva inoltre il dono di creare intorno a sé una comunità. Una comunità di giovani che erano tanti (a quel tempo le sezioni del D'Oria erano sei) ma che egli sapeva coinvolgere e legare a sé. Una sorta di carità apostolica verso una generazione sventurata, gran parte della quale sarebbe divenuta nel corso della guerra carne da cannone».
Com'erano le sue lezioni?
«Un'ostensione della fede e della razionalità che erano in lui. Dal suo insegnamento si traeva, infatti, subito la percezione che la fede potesse coesistere con la ragione. La fede non possedeva solo autorevolezza ma anche razionalità. Il carisma di Don Siri comunque si imponeva al di là della sue parole. Oltretutto, io che provenivo da una famiglia antifascista, mi resi subito conto che le posizioni della Chiesa erano molto diverse da quelle del regime. Insomma, emergeva in maniera del tutto preminente l'interesse del nostro insegnante di religione per i problemi sociali e politici, da leggersi in chiave eminentemente cattolica».
La sua vocazione sacerdotale è nata proprio da quei colloqui del periodo scolastico?
«Direi indubbiamente di sì. Mi iscrissi al seminario, poi mi ammalai e mia madre decise di farmi abbandonare i corsi, senza dubbio sbagliando. Poi la mia vita ha proceduto su strade diverse. Quello comunque che mi affascinava era scoprire che mentre il mondo turbinava, mettendo in crisi tutte le sue certezze, soltanto la Chiesa rimaneva ferma e salda sulle posizioni di sempre. Per me il prete, insomma, era colui che rimaneva mentre il mondo cambiava».
Lei mi ha parlato di un Siri eminentemente interessato ai problemi sociali. Si tratta di un aspetto della sua personalità poco conosciuta.
«Certamente. L'interesse per il sociale Siri lo rivelò già a partire dagli anni della guerra civile, quando il rapporto città - campagna venne rovesciato. Non era più la città ad alimentare la campagna, ma la campagna a mantenere la città. Fu in quel periodo che Siri con la creazione dell'Auxilum riuscì a vincere la guerra contro il mercato nero. Stupisce come quest'uomo che tutti conoscevano come fine teologo si rivelasse in fondo anche un grande organizzatore sociale. Ma l'arcivescovo non si limitò alla popolazione civile. Grazie a lui e al suo braccio destro, Giovanni Cicali, sopravvissero alla prigionia e alla fame anche i prigionieri della Rsi. E non meno abile si rivelò come diplomatico e mediatore, quando ottenne dal generale Meinhold l'evacuazione della forze tedesche da Genova. Nonostante la polemica del Cln, fu Siri più ancora di Boetto l'autentico artefice della liberazione della città».
Dunque, il cardinale svolgeva un duplice ruolo, quello del grande teologo ma anche del grande leader sociale e politico.
«Che le cose stessero proprio così lo dimostrano due libri che Siri scrisse in quegli anni: La rivelazione nella Chiesa e Teologia per laici. Due volumi che documentano come egli sapesse cogliere d'istinto la giusta linea nelle cose temporali e spirituali».
Un istinto che comunque lo conduceva sempre, a colpo sicuro, anche verso l'ortodossia.
«L'ortodossia era, a quel tempo, consustanziale alla Chiesa. Ecco, per meglio collocare nel suo contesto l'operato di Siri in quegli anni, occorre parlare di due momenti diversi in cui ebbe ad operare. Nel primo - e dicendo primo intendo grosso modo gli anni Cinquanta e dunque l'ultimo periodo del pontificato di Pio XII - l'arcivescovo di Genova si colloca come il referente della Chiesa in Italia nei confronti del mondo politico. Egli promuove l'Ucid, così come Montini aveva promosso le Acli. Entrambi poi vedono nella Democrazia Cristiana il partito unico dei cattolici e questo nonostante l'opposizione, ad esempio, di Ottaviani, che riteneva come più di un partito potesse farsi portatore delle istanze della Chiesa».
In ambito sociale quali sono i meriti maggiori di Siri in quell'epoca?
«Beh, diciamo innanzitutto che protesse Genova nel momento in cui si imponeva la riconversione dell'industria bellica in industria civile. Penso alla creazione dello stabilimento Oscar Sinigallia A quel tempo, si diceva Siri Iri proprio per indicare come il cardinale fosse al centro del cambiamento e della trasformazione della città».
Alla morte di papa Pacelli, dunque, Siri avrebbe potuto succedergli sul seggio di Pietro?
«Certamente, ma era troppo giovane. Non era ancora il tempo in cui Karol Woytila, ancora cinquantenne, sarebbe stato eletto pontefice. I padri conciliari gli preferirono il già anziano Giovanni Roncalli, di cui Siri parlò sempre con stima e rispetto, ma che fu il papa del Vaticano II, il concilio che colse Siri assolutamente impreparato».
Con il concilio si apre un nuovo periodo nella vita del cardinale?
«Senza alcun dubbio. Un periodo in cui egli vide divenire decisamente meno preponderante il suo ruolo nella politica della Chiesa in Italia. Ma soprattutto un periodo in cui gli crollarono addosso le certezze dell'intera esistenza. Siri aveva partecipato alle riunioni delle commissioni preparatorie, ma mai si sarebbe aspettato che tre anni di lavori venissero cancellati improvvisamente dal papa. Il cardinale era abituato a concepire la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa ed il mondo della cultura e della politica come un'altra realtà, non contrapposta ma separata dalla prima. Che cosa succedeva ora con il concilio? Che il mondo moderno entrava nella Chiesa, determinando rispetto alla storia millenaria di quest'ultima momenti di rottura e non di continuazione. Questo fu l'aspetto che colse di sorpresa Siri, determinando in lui una profonda sofferenza».
Quali erano i principali elementi di rottura che Siri non poteva accettare?
«In primo luogo, per usare una terminologia politica, la corrente di pensiero che mirava a sostituire, al vertice della Chiesa, ad un governo monarchico un regime di tipo aristocratico od oligarchico. Per cui la sovranità non era nel papa in quanto successore di Pietro ma nel collegio di cui il papa era la sintesi. Al posto del tradizionale sub Petro, una nuova versione del potere sinodale che potrebbe esprimersi nella formula cum Petro. In questa situazione, l'episcopato franco - tedesco assunse la direzione del concilio e l'asse del potere si spostò dai vescovi ai chierici - teologi. I quali inventarono una nuova definizione di Chiesa, che non ha nessun riscontro nella tradizione ecclesiale, vale a dire quella di popolo di Dio. Accadeva, insomma, qualcosa di imprevedibile ed inusitato: la Chiesa si ripensava ex novo, secondo modelli che si avvicinavano di più alla tradizione greco - ortodossa e luterano che a quella cattolica».
Quale fu l'atteggiamento di Siri di fronte a tutto questo?
«Il cardinale non assunse mai apertamente posizioni critiche o di contestazione. Non si impose come oratore del concilio, ruolo che ricoprirono maggiormente Ottaviani o l'arcivescovo di Palermo, Ruffini. Non ricordo un contributo di Siri ad un particolare testo conciliare, cosa che invece fece monsignor Guano, che a Genova rappresentava l'ala progressista. Siri visse semmai l'evento in maniera traumatica, somatizzando le sue ansietà nella malattia, quella labirintite che lo tormentò per molto tempo. La sua vera reazione si tradusse, in fondo, nella creazione di Renovatio, una rivista di studi che si proponeva di contenere quella volontà di rottura con la tradizione che, come abbiamo visto, costituiva un po' la seconda anima del concilio»
In che cosa consisteva questa rottura?
«Come ha spiegato bene papa Ratzinger, alcune forze presenti nel concilio propendevano per l'idea che la rivelazione divina fosse contenuta soltanto nella scrittura e che la tradizione costituisse un elemento subordinato alla scrittura, da affidare esclusivamente agli esegeti. I quali divenivano i padroni di tutto. Una concezione molto simile a quella di Lutero, che veniva a mutare profondamente la natura del cattolicesimo».
Fu contro questo tipo di concezione che si schierò Renovatio?
«Certamente. Noi escogitammo l'idea del fondino per dare più autorità alla rivista. Si diffuse cioè attraverso le agenzie di stampa la notizia che le note di fondo della rivista fossero sempre scritte dal cardinale, che comunque preferiva non firmare i suoi interventi. Questo contribuì a dare tono alla rivista anche all'estero.
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