nostro inviato a Damasco
«Non ci fermeremo, non crediamo alle false promesse di riforma: scenderemo in piazza ogni giorno finché non avremo la libertà». I messaggi rimbalzano su Facebook per chiamare alla raccolta gli oppositori del regime di Bashar Assad. È inutile nasconderlo, la situazione in Siria è precipitata nell’arco di pochi giorni. Il fuoco della rivolta si è acceso mercoledì nel sud del Paese, a Dar’a, dove la gente è inizialmente scesa in piazza contro il governatore della provincia, accusato di essere corrotto. La repressione è stata violenta, anche se il bilancio delle vittime è ancora un punto interrogativo e varia a seconda delle fonti: dai 20 ai 100 morti.Eppure nell’ultimasettimana la situazione appariva tutt’altro che destinata a precipitare. Abbiamo attraversato la Siria da nord a sud e in tutte le città, da Aleppo fino a Bosra, il clima era più che tranquillo e non c’erano segnali evidenti di un’imminente rivolta. Tantissimi turisti, in gran parte italiani ed europei. E affollate di stranieri non erano soltanto le mete archeologiche ma anche le principali città. Solo raggiungendo il sud, ai confini con la Giordania, la tensione era palpabile. La strada che portava a Dar’a era bloccata dalle forze di sicurezza, la città era circondata e isolata, nessuno poteva avvicinarsi. Era il mercoledì della protesta, ma le notizie filtravano a rate. Le fonti ufficiali minimizzavano gli scontri. Qualcuno affibbiava la colpa ai palestinesi, accolti come profughi dopo la diaspora negli anni ’70, altri parlavano con timore di una nuova fiammata integralista. Ma il governo ha reso difficili le comunicazioni: internet va a singhiozzo e dopo la rivolta di Dar’a è diventato difficile perfino inviare e ricevere sms. A Damasco tutti hanno pensato, o forse è meglio dire sperato, che la rivolta fosse un episodio isolato. Così non è stato. E lo si vede camminando per il centro storico della capitale, dal suk alla grande moschea degli Omayyadi fino al palazzo Azem: poliziotti e agenti di sicurezza in borghese sono schierati in ogni punto strategico, pronti a sedare qualsiasi tentativo di protesta. Giovedì la contestazione è continuata, mentre a Damasco il partito Baath del regime mobilitava i suoi sostenitori per una serie di manifestazioni che inneggiavano alle riforme appena annunciate dal presidente: revoca dello stato d’emergenza, elezioni aperte a tutti i partiti a eccezione di quelli religiosi, aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici, indennità per i disoccupati. Per un momento tutti si sono illusi che ciò sarebbe bastato ad arrestare l’onda della protesta. Ma venerdì, dopo la preghiera, le manifestazioni si sono estese in molte città siriane e continuano tutt’ora. Francamente, non è ancora una rivolta di popolo: a Damasco sono scese in corteo circa 200 persone e i numeri non sono molto superiori nelle piazze delle altre città. Il vero epicentro della rivolta è il sud: per il quarto giorno consecutivo Dar’a è stata messa a ferro e fuoco, con assalti alla sede del partito Baath e scontri sanguinosi tra manifestanti e forze di polizia ed esercito. Cortei spontanei si sono formati nelle località circostanti con l’obiettivo di raggiungere in marcia i rivoltosi di Dar’a. E la rivolta ha contagiato anche la roccaforte alawita di Latakia. La reazione del regime è stata ancora una volta durissima: fonti locali parlano di oltre 100 vittime dall’inizio di una protesta che non sembra placarsi neppure di fronte alle riforme promesse e alla scarcerazione, annunciata ieri dal presidente Assad, di oltre 200 prigionieri politici. Sono le prime sostanziali aperture del regime. Basteranno? Molti analisti concordano nel dire che quella di Assad, vista dal mondo arabo, è una dimostrazione di debolezza. E i fatti sembrano confermarlo:l’opposizione interna al regime non alcuna intenzione di fermarsi e continua a chiamare a raccolta la gente in piazza. A Damasco la gente non parla volentieri. Gli unici che cercano di dare spiegazioni sono le guide turistiche che, incalzate dagli ospiti stranieri, esprimono la loro opinione sulla situazione. Ahman fa la guida turistica da alcuni anni, parla bene l’italiano ed è cristiano, una minoranza religiosa che in Siria sfiora il 10% a fronte di una maggioranza islamica divisa tra sunniti (74%), alawiti (una frangia sciita, che nonostante sia una minoranza domina il Paese: la famiglia Assad e i vertici dello stato e militari sono alawiti) e drusi, che insieme non superano il 13%. «È vero, non c’è abbastanza democrazia come la intendete voi - dice Ahman- . Ma viviamo dignitosamente. Qui c’è uno stato laico e per ora siamo tutelati. Forse le riforme di Assad non saranno sufficienti, ma se dovesse cadere lasciando spazio ai partiti religiosi per noi sarebbe la fine. Come in Iraq, dove i cristiani sono costretti a fuggire per le persecuzioni».
Il presidente Bashar Assad, quindi, può contare ancora su numerosi sostenitori, sia perché è considerato il male minore sia perché il regime e l’esercito sono una roccaforte alawita, uniti indissolubilmente allo stesso destino. La partita è ancora aperta e la strada verso la democrazia ancora lunga.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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