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La Siria non è la Libia: i massacri di Assad non indignano nessuno

Se i 120 dimostranti siriani ammazzati nelle ultime 48 ore vi sembran pochi aggiungeteci quelli caduti dal 18 marzo in poi. In totale fan quasi 400 vittime. Un’ecatombe, un mattatoio in piena regola, una strage con i fiocchi. Ma al mondo c’è massacro e massacro. Per quelli commessi dal diavoletto Muammar Gheddafi si bombarda la Libia e s’invoca la necessità di un rapido cambio di regime. Per i cadaveri ammassati dal ragazzotto Bashar al Assad si preferisce indugiare, attendere, tergiversare. Per Gheddafi il presidente Barack Obama ottiene, con l’appoggio di Parigi e Londra, prima le sanzioni e poi il voto della risoluzione Onu sulla “no fly zone”. Per Assad il presidente Nobel per la Pace e gli altri interventisti di Libia continuano ad accontentarsi d’una condanna energica, ma pur sempre verbale. È la legge del sangue. Sangue prezioso se a spargerlo c’è un Belzebù da operetta seduto su un mare di petrolio, ma in fondo estraneo alla grande trame della geopolitica internazionale. Sangue di seconda classe se a spargerlo ci pensa l’erede di un dittatore che da 11 anni approfitta dell’abusata fama di riformista “in pectore” per tessere intrighi internazionali al fianco di Teheran e Hezbollah ed eliminare nemici e oppositori.
Chiamatela se volete legge della complessità. Applaudire la fuga di un cleptocrate come Ben Ali in una Tunisia pronta ad autoriformarsi è facile. Salutare la caduta di faraone senescente come Hosni Mubarak può rientrare nell’ordine naturale delle cose. Cercare di far fuori un dittatore eccentrico e detestato come Gheddafi può sembrar faccenda da poco. Ma la grana Assad è tutt’altra cosa. La Siria è il vero ginepraio del Medio Oriente. È una nazione a maggioranza sunnita governata da un presidente alawita, figlio di una setta islamica che rappresenta meno del 5 per cento della popolazione, ma viene, per convenzione politico religiosa, assimilata al grande scisma sciita. È un Paese dove, nonostante l’alleanza con l’asse iraniano, i gruppi salafiti e i fratelli musulmani contano su consensi diffusi e radicati che superano - in certe regioni - il 50 per cento. Cercare di rovesciare Bashar e la gang di generali ereditati da papà Hafez significa insomma scoperchiare un vaso di Pandora di cui nessuno conosce la reale entità.
Anche perché l’inconsistente politica dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, i falliti tentativi di dialogo con Teheran, il disinteresse per un Libano regalato a Hezbollah e la passività esibita di fronte al destino di un alleato come Mubarak spingono l’Arabia Saudita a muoversi fuori dal controllo dell’alleato americano. Dopo aver mandato le truppe a sedare la rivolta sciita in Bahrein, la corte di Riad sta ora alimentando e armando la rivolta dei fondamentalisti sunniti in Siria. E così il perennemente incerto presidente Obama fa i conti con l’ennesimo dubbio cosmico. Favorendo le trame saudite e accelerando la caduta del regime non rischia soltanto di favorire un affermazione fondamentalista, ma anche di spingere all’intervento in difesa di Assad l’Iran e il Partito di Dio libanese. Rischia insomma d’innescare un conflitto capace di incendiare l’intero Medio Oriente e bloccare gli approvvigionamento energetici dell’Occidente.
Ma anche ipotizzando una compassata indifferenza iraniana c’è poco da star tranquilli. L’avvento di un regime fondamentalista sunnita a Damasco rischia di riaprire quel conflitto del Golan con Israele che sia Bashar al-Assad sia il padre Hafez si sono sempre ben guardati dal riaccendere. E proprio questo spiega il riflessivo silenzio con cui anche Israele osserva le perturbazioni siriane. Sull’altalena dell’incertezza si muove anche Ankara, preoccupata dall’idea che il destabilizzato territorio siriano possa offrire rifugi e nuove opportunità all’insurrezione curda. Preoccupazioni quasi speculari per il vicino Irak dove i gruppi qaidisti potrebbero approfittare delle turbolenze siriane per ampliare ed estendere la propria sfera d’azione.
E così di fronte agli incubi del ginepraio siriano tutti dimenticano le nobili dichiarazioni d’intenti con cui si auspicava la rimozione del tiranno Gheddafi.

Primo fra tutti quel segretario di Stato Hillary Clinton che in un’intervista televisiva di qualche settimana fa ribadisce - a stragi già avviate - la «differenza» del presidente Bashar difendendone una già stantia ed abusata indole «riformista».

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