«Si racconta che in altri tempi la cattedrale di Chartres colpita da un fulmine bruciasse da cima a fondo. Allora, dicono, migliaia di persone accorsero da tutti gli angoli del mondo, persone di tutte le condizioni. Attraversarono l'Europa come uccelli migratori, tutti insieme ricostruirono la cattedrale ma il loro nome rimase sconosciuto». L'episodio è in una nota (la n.176 a p. 86/87) dell'affascinante saggio di Claudio Papini Ben ritrovato Ernst Ingmar! (De Ferrari). Chi vuole quest'estate far qualcosa per sé, per pensare, sognare e capire, lo legga.
Bergman con la «favola vera» di Chartres raccontava come l'arte avesse perduto significato da quando si era separata dal culto, ci ricordava una «collettività creatrice capace di salvare le gioie della comunità». Il suo è stato anche un credo scandinavo nella forza di valori condivisi che innervavano una relativa sicurezza dei rapporti sociali. «Finché lo sviluppo più intenso di forme d'immigrazione, costituite da popoli di culture del tutto differenti non la verrano scuotendo (o per più tratti revocando in dubbio)» è in proposito la riflessione dell'autore. Anzi, a fine saggio, Papini ci ricorda come «l'eternità umana di Bergman continui a sorprenderci» per la densità di significati di fondo della sua opera e come «quell'area culturale che fu un tempo periferica sia riuscita a rendersi centrale, perché un tempo fu più vicina al centro di quanto allora lo fossimo noi».
Nelle sue opere, per lo più filosofiche (ma al tempo stesso letterarie per uno spaziare nella cultura di un'epoca), Papini connota il protagonista attraverso fatti nodali della sua vita. Nel '68 Bergman, sotto gli occhi del figlio, fu cacciato dalla scuola statale d'arte drammatica. Aveva dichiarato che i giovani allievi avrebbero comunque dovuto impadronirsi della tecnica di recitazione e questi lo fischiarono sventolando il libretto rosso. Il regista, pur consapevole che il suo lavoro non ne ebbe gran danno perché il suo pubblico era altrove, ebbe a dolersi che solo in Cina e in Svezia i maestri fossero stati umiliati e irrisi. Sentì il «risorgere di un fanatismo conosciuto nell'infanzia quando le idee sono burocratizzate e corrotte, quando s'instaura disinformazione, settarismo, intolleranza». «Ben ritrovato» scrive nel titolo Papini e dà la sua interpretazione di queste parole che valgono per noi tutti nel senso del «quanto è attuale quest'uomo» (che ha girato film dal tempo di guerra con «Spasimo» nel 1944 al 2003 di «Sarabanda»), o anche per come ci sembra simile, oggi, quel clima intollerante.
Come tutti quelli di Papini questo è un alto libro politico. Ad esempio, citando il film «Ciò non accadrebbe qui», osserva: «È impensabile che in un paese d'Europa non controllato dall'URSS si dovessero fare solo film antifascisti». Osserva: «Si possono fare film di destra o di sinistra del tutto riusciti e così altrettanto film antifascisti e anticomunisti di valore». In questa serenità, un motivo in più per leggere.
L'analisi si svolge su due piani: sui grandi temi, scandagliando i film in sette capitoli, e su Bergman, uomo ed artista nella sua solitudine, aristocraticità e fantasia.
Sul primo versante ecco il teatro come arte politica, un equilibrio tra atteggiamento cristiano e pagano, il paradosso del male nella creazione divina, il perché arte e filosofia non trascinino le masse al contrario di religione e politica. L'indagine sul rito (risalendo al teatro greco), su fiaba, su esoterismo e sull'esoterismo nella cultura ebraica, sulla psicoanalisi che si affermò dal dopoguerra al 1968 (anni del suo grande cinema); sui sogni degli uomini che riflettono lo spirito del tempo. Tutti questi non come temi slegati ma per far emergere una comune attinenza al mondo del perturbante.
Per Bergman uomo vale una sorta d'identificazione con il «buffone» che ride e deride ma è anche «colui che cerca Dio», e l'analisi su «amore dell'artista» che è sacrificio di sé ed egoismo verso altri della famiglia. E ancora Bergman, figlio di una Svezia neutrale dal tempo del Congresso di Vienna (1814/15), che sa vedere la guerra per le sue conseguenze come nel film «La Vergogna». Bergman, il primo a darci una vera psicologia femminile: «le donne custodi di vita (nel riprodurla) avvertono il lato misterioso di ciò che è prima e oltre la vita». E ancora Bergman che nel 1966 incontra a Roma Fellini e sogna di realizzare un film come i suoi.
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