Se fosse vera la sentenza Ars gratia artis vivremmo in un mondo buono e giusto, cosa che notoriamente non è. Raramente infatti si è dimostrata credibile l’idea dell’«arte per l’arte», cioè che quando si ha a che fare con la cultura non bisogna pensare ai vantaggi pratici, perché l’arte deve essere superiore e perseguita solo per il piacere - appunto - dell’arte. E il fatto che la Metro-Goldwyn-Mayer, major del business cinematografico, abbia scelto la frase latina come proprio motto, è solo una di quelle simpatiche contraddizioni di cui sono capaci gli americani, e la dimostrazione che Hollywood fabbrica sogni, non realtà.
Perché in realtà l’arte quasi mai basta a se stessa. O perlomeno, quasi mai basta all’artista. Il quale nella lunga storia della civiltà ha dovuto fare quotidianamente i conti con la poco poetica verità che la cultura non arricchisce. Ecco perché gli stessi latini, per correggere l’utopia dell’«arte per l’arte», apposero pragmaticamente la chiosa carmina non dant panem.
I carmi certo no, e neppure la filosofia, o la letteratura, o il mondo dell’arte, a parte ultimamente le arti-star. Ma il cinema ha sempre pagato. Ha sempre strapagato – per stare alla cronaca recente – nomi come quelli di Laura Antonelli e Helmut Berger, due attori la cui fama e i cui contratti, per decenni, sono stati pari alla loro bellezza. Straordinari.
Oggi l’una e l’altro chiedono aiuto. Hanno lavorato per l’arte, la settima, l’hanno onorata con le loro indimenticabili interpretazioni, ci hanno fatto sognare, ridere, piangere, e ora - giunti abbondantemente a fine carriera e oltre i limiti economici della sopravvivenza materiale - lanciano un appello perché sia garantita loro la dignità che l’essere stati grandi artisti richiede.
Laura Antonelli, è stato detto, si è ridotta a sopravvivere con 510 euro al mese e la beneficenza di una parrocchia. Helmut Berger ha fatto sapere di tirare avanti con la pensione italiana di 200 euro e che rischia l’ospizio. Per entrambi si è già ventilata la possibilità di un intervento dello Stato.
Al netto dell’immancabile partecipazione al dramma dei due attori, ci sembra però che sbandierare la concessione della famigerata legge Bacchelli (o affini provvedimenti) per alleggerire la situazione di difficoltà di Laura Antonelli e di Helmut Berger (che ha l’aggravante, pur vivendo a Roma e avendo lavorato molto in Italia, di essere austriaco) significhi, cinematograficamente parlando, inquadrare male il problema. L’attrice di Pola è stata una superstar per un paio di decenni. Dopo che ottenne il Nastro d’argento come migliore protagonista per Malizia il suo cachet lievitò da 4 a 100 milioni di lire per film. Erano i primi anni Settanta, e i titoli delle pellicole che girò da quel momento in avanti occupano una pagina di Wikipedia. Fatti due conti, una fortuna. L’attore di La caduta degli dei e Ludwig, sull’onda della propria bravura e della relazione con Luchino Visconti (del quale peraltro conserva ancora parecchi quadri di valore), ha girato più di 80 film e per anni fu richiestissimo dai produttori. Fatti altri due conti, una gigantesca fortuna.
Poi, per entrambi, arrivarono le sfortune: depressione, vita sregolata, droga, alcol, amori sbagliati e amicizie azzardate, scialo e dissipazioni. Dalla nobiltà alla miseria.
L’arte non pagherà, ma le scelte sì. Prima o poi presentano sempre il conto. E che poi a pagarlo sia lo Stato, cioè noi, non deve essere una decisione presa sull’emozione del dramma esistenziale messo in scena dai media. Pensiamoci un attimo.
Riccardo Bacchelli, che ha lasciato il proprio nome alla legge numero 440 del 1985 che concede un vitalizio a quei cittadini distintisi nel mondo della cultura e dello spettacolo ma che versano in situazioni di indigenza, era il primo di cinque fratelli, figlio di uno stimato ma modesto avvocato bolognese, dedicò la sua vita alla scrittura e le «dorate» luci della ribalta le intravide da lontano solo quando trasformò I promessi sposi in uno sceneggiato della Rai. Per il resto, condusse una vita come quella dei suoi personaggi romanzeschi. Fatta di sacrifici. Ed è tutto da dimostrare che Il mulino del Po abbia minori meriti artistici, sebbene sia indubbiamente più pesante, del Merlo maschio.
Antonelli e Berger sono due icone del nostro cinema. Ma sono state riconosciute come tali dal mercato e (stra)pagate per le loro opere. Dall’arte sono stati ipernutriti, vezzeggiati, idolatrati. Con la cultura, alta o bassa che sia, capolavori e b-movies che siano, ci hanno fatto soldi, ville, spider e Veuve Clicquot. Oggi devono accontentarsi dell’ospitalità degli amici e della spesa pagata dalla parrocchia. Spiace.
Altri non hanno mai avuto neppure l’utilitaria, né un appartamento. Gavino Ledda, beneficiato dalla Bacchelli, vive da eremita nello stesso paesino del Sassarese dove è nato. Ha scritto Padre padrone, narrando storie di miseria, ma senza mai piangerla. Alda Merini, prima di ricevere il sussidio, ha dovuto penare a lungo. E anche dopo, seppure per poco, ha continuato a vivere (anche per scelta, certo) in mezzo alla sporcizia in un monolocale sui Navigli. Ed è la poetessa italiana più conosciuta del secondo Novecento.
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