«Sono Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro, mi spezzo ma non m’impiego»

Continuiamo a chiamarlo «lavoro atipico», ma ormai è diventato così tipico da connotare un’intera generazione, un esercito che marcia al suono di «Buongiorno sono Sara, come posso aiutarla?», fatto di ex co.co.co, neo co.pro, interinali, Partite Iva, sospesi fra un rinnovo e l’altro di contratti effimeri e vite condivise in appartamenti da studenti, quando ormai si sono superati i quaranta. Di fronte a un fenomeno che non è neanche più emergente ma ha già cambiato l’aspetto della società italiana, Einaudi pubblica a poche settimane di distanza l’una dall’altra due inchieste di giovani autori.
«Provare ad approfondire, quando tutto vuole essere, e rimanere, in una sconfinata superficie che ci fa vivere sulla cresta di un mare di merci e di illusioni che non dobbiamo capire, perché nel momento in cui capiamo ci può essere la reazione, la rivolta». Deve essere per cercare di approfondire, ma soprattutto per reiterare concetti brillanti come questi, distillati senza risparmio ogni paio di paragrafi, che Aldo Nove ci regala Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese... (Einaudi Stile Libero, pagg. 178, euro 12,50). Un libro deprimente e irritante.
Deprimente perché dover riconoscere che ci sono persone che hanno lungamente studiato o investito sulla formazione, e ormai pienamente adulte sono costrette ad arrabattarsi con stipendi da far sorridere le badanti extracomunitarie, e soprattutto ormai esauste hanno perso la voglia di fare, dispiace e intristisce parecchio. Irritante perché quello che emerge da queste conversazioni con quindici giovani lavoratori precari è un panorama di disfattismo a priori, chiusura in se stessi, arroccamento sui luoghi comuni di chi a conclusioni drastiche e lapidarie è arrivato ancor prima che un mondo del lavoro difficilissimo e in forte trasformazione gli procurasse delusioni reali. Di chi, insomma, fin dall’inizio del proprio percorso professionale s’è mostrato stanco e poco disposto alla competizione, e ha assunto quell’atteggiamento per cui il lavoro è considerato un diritto cui debba provvedere qualcun altro.
A contare in questo libro in realtà, più che il contenuto, è la posizione ideologica priva di sfumature di Aldo Nove. Ovvero, il suo intento di scrivere non tanto un docudramma e un «racconto-commento, sommesso e radicale», come recita la quarta di copertina, quanto piuttosto la solita invettiva sui tempi correnti dell’Italia berlusconiana. Lo sforzo di guardare all’interno del diffuso mondo dei precari, sarebbe più che lodevole, andando a raccontare ambiti professionali differenti, cercando storie esemplari ma non troppo estreme. Non fosse che a scriverlo è il solito sopravvalutato “giovane” scrittore ex-cannibale, o meglio un “vecchio di belle speranze”, come si esprime lui stesso: uno di quelli ancora capaci di rimpiangere gli ideali comunisti. E proprio per questo, incapace di premettere alle storie dei suoi intervistati altro che introduzioni sconfortanti per banalità e prevedibilità. A tal punto coraggioso, invece, da pensare una frase di questo tenore: «Cultura umanistica, che serviva anche a capire il presente. E che si chiamava anche marxismo. Questo ambito interdisciplinare è oggi poco praticato. La manovalanza intellettuale è meglio che sappia il meno possibile di quello che fa. L’importante è che faccia. Non si sa cosa. Che la nave avanzi. Non si sa dove. Ma avanzi. Nell’immenso telefilm».
Non sarebbe stato meglio raccontare qualche storia in più, introdurne magari anche alcune di precariato di medio successo, che forse non è del tutto impossibile, e tralasciare le inutili presentazioni romanzate? E se davvero libro inchiesta si intende fare, perché non andare anche a cercare i soggetti dall’altra parte della barricata, sempre citati ma non interpellati: i datori di lavoro, gli operatori delle agenzie interinali, i capi delle tanto vituperate aziende ingessate nelle gerarchie?
Dev’essere impresa più difficile, meno gratificante del facile piagnisteo, e meno romanzabile. È quanto dimostra anche l’altro reportage, efficacemente intitolato Mi spezzo ma non m'impiego - Guida di viaggio per lavoratori flessibili (Einaudi ET Pop, pagg. 149, euro 10,80), col quale il trentenne Andrea Bajani, già egli stesso lavoratore atipico, racconta in maniera tragicomica e ironica - e quindi più apprezzabile - un viaggio in questo mondo. «Una vacanza dalla disoccupazione», per la quale le «agenzie di somministrazione del lavoro» sono uffici turistici, le forme di contratto sono pacchetti di viaggio per varie tipologie di viaggiatori, le vite sono «a progetto». Il lavoro è di piccolo cabotaggio, ma almeno Bajani ha il merito di aver ben strutturato un’inchiesta documentata e arguta, dai toni più pacati e con il pregio di una panoramica interessante e discretamente articolata.
Anche in questo caso però, vorremmo tanto dopo questo profluvio di sconfortanti surrealtà professionali, ci venisse svelato anche qualcosa di meno inevitabile.

Ci piacerebbe tanto una sorpresa, scoprire qualcosa che non sappiamo o che non avremmo sospettato. Invece, di nuovo, è tutto soltanto un mare di rassegnazione e sfruttamento, e a quel punto ci chiediamo se faccia parte della denuncia di un mondo devastante, o non sia piuttosto il solito mugugno.

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