Cultura e Spettacoli

"Attenti a come parliamo. La lingua può unirci o dividerci per sempre"

In "L'alfabeto di fuoco" l'autore fa delle parole un virus, fra distopia e horror metafisico

"Attenti a come parliamo. La lingua può unirci o dividerci per sempre"

Insegnare per diciotto anni scrittura e narrazione alla Columbia University porta almeno a due conseguenze: una conoscenza della cultura letteraria americana contemporanea al di sopra del bene e del male e un provocatorio distacco dalle questioni che viste «da fuori» appaiono fatali, tipo «Prima o poi qualcuno scriverà il Grande Romanzo Americano»? Ben Marcus, che ha girato la boa dei cinquanta lo scorso anno e oltre a fare il prof ha curato l'antologia New American Stories per Granta e si è messo in tasca parecchie fellowship e premi, riversa questo provocatorio distacco e questa visione nei suoi racconti e nei suoi romanzi, oltre che in saggi di culto come Perché la fiction sperimentale minaccia di distruggere Jonathan Franzen, l'editoria e la vita come li conosciamo, passato di mano in mano fra gli intellettuali americani come una nuova Bibbia.

Il romanzo più famoso di Marcus, L'alfabeto di fuoco, esce oggi in Italia per Black Coffee (pagg. 362, euro 15, traduzione di Gioia Guerzoni) e l'autore arriva al Salone di Torino (sabato 12 maggio, ore 15,30) per parlare del «potere nascosto del linguaggio». Perché questo è il tema del romanzo, fra il distopico e l'horror metafisico: dal morettiano «le parole sono importanti» si passa a «le parole sono letali»: in un'America del futuro, tutta la comunicazione è nociva al punto da far ammalare e poi morire gli adulti, proprio come un virus, di cui portatori sani sono i bambini. In un mondo dove il linguaggio è tossico, la solitudine è il male minore e «Non trovare le parole per dirlo» può diventare la salvezza.

Perché il linguaggio?
«L'alfabeto di fuoco immagina un mondo dove il potere del linguaggio è così amplificato che la gente non lo può reggere. Esposti alle parole, si ammalano e muoiono. Tutti a parte i bambini. C'è un vecchio modo di dire: I bastoni e le pietre mi possono spezzare le ossa, ma le parole non mi fanno male. Me lo dicevano sempre quando ero giovane e non mi è mai sembrato vero: le parole fanno male, eccome. Nel romanzo esploro questa possibilità, letteralmente. E cerco di capire che cosa accade a una famiglia che deve scegliere tra l'unica figlia e la sopravvivenza».

Le famiglie sono un «sistema» interessante?
«Nelle famiglie tutti i sentimenti sono all'ennesima potenza. Ho vissuto personalmente sia il potere dei genitori sui figli, sia quello dei figli che dettano le regole. Ci si ferisce senza limiti, ma ci si perdona anche più spesso che in altri sistemi».

E il linguaggio quali colpe ha?
«Le stesse che ha la pistola in un crimine. Non è colpevole la pistola, ma chi la usa. Chi parla. Uno strumento che diamo per scontato come la lingua è molto più potente di quanto ci aspettiamo: può unirci o dividerci per sempre».

È vero che ha gettato alle ortiche oltre 500 pagine di questo romanzo prima di arrivare alla versione definitiva?
«Certo. Ma lo faccio con molti libri. Molto di ciò che scrivo arriva a un irrilevante punto morto. Quindi parte determinante del lavoro di uno scrittore è buttare via, fino a che non si arriva a un contenuto cruciale. O almeno ci si prova».

Per uno scrittore il linguaggio che cos'è?
«La cura, e insieme la causa, della solitudine».

E per un professore di scrittura?
«Si dice spesso che non si può insegnare a scrivere. Eppure in qualche modo la gente impara. Forse allora quelli che dicono che non si può insegnare pensano che dobbiamo imparare da soli a scrivere?».

Andare a scuola fa la differenza?
«Una buona classe di scrittura può creare una comunità. Un luogo dove chi pensa, lavora e legge può diventare sfida e ostacolo per gli altri e spingerli a pensare e sentire in modo nuovo».

Qual è il compito di queste «comunità»?
«Credere nel potere della lingua. È solo uno strumento, come ho detto, ma usata insieme agli altri nella scrittura può diventare un modo nuovo, dirimente, per rivelarsi. Certo, si può arrivare agli stessi risultati anche da soli, non dico di no».

Lei ha sposato una scrittrice. Come si vive in una casa piena di parole?
«È una cosa grandiosa. Avere accanto qualcuno che prende scrittura e lettura così sul serio, che ci crede e che capisce quando farle accadere è una fortuna, per uno scrittore».

Il Grande Romanzo Americano è morto? O non è mai nato?
«Fatico molto, in questo momento di crisi per il mio Paese, a focalizzarmi su prodotti letterari locali».

In passato lei ha dichiarato che «fiction» è soltanto una parola per indicare a librai e bibliotecari dove sistemare i romanzi e i racconti.

Come definirebbe allora le sue opere?
«Davvero ho detto questo? O cielo!».

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