Cent'anni di divertimento con i detective di Bolaño

Avventurieri, poetesse scomparse, ex artisti d'avanguardia, poliziotti corrotti. Una selvaggia cavalcata del meno sudamericano degli autori sudamericani

Cent'anni di divertimento con i detective di Bolaño

O a che è morto, si prospettano altri cent'anni di solitudine per chi, come me, non ha mai sopportato Gabriel García Márquez. Come non ho mai sopportato in generale la letteratura sudamericana, non se ne salva uno. Neppure José Donoso che mi consiglia Antonio Moresco per cercare di convertirmi, invece per me era troppo sudamericano pure lui. E poi Vargas Llosa, gli hanno dato pure il Nobel. E poi Isabelle Allende, mamma mia. Tutte queste tragedie familiari infinite all'ombra di colpi di Stato in paesi straccioni, se li meritano i dittatori. Tutto questo realismo rigorosamente magico, perfino peggio della retorica del neorealismo italiano, più simile al senegalese che cerca di venderti i calzini e se glieli compri ti dice «Thank God», perché la vita è bella, fratello. E allora ridammi i soldi e ciucciati il calzino, come direbbe Bart Simpson.

Gli scrittori sudamericani sono come gli scrittori napoletani che scrivono di Napoli, ogni cosa si sudamericanizza in un vittimismo storico-sociale che permea ogni parola e culturalmente devono ancora digerire Flaubert. La realtà è tragica ma magica, quindi scientificamente non sono arrivati neppure a Newton o Darwin, assomigliano più alla zingara che ti fa i tarocchi a Piazza Navona.

Per carità, ci saranno anche gli scrittori di Busto Arsizio che considerano Busto Arsizio il centro del mondo, ma non sono così rumorosi. D'altra parte se il canone è occidentale un motivo ci sarà (o almeno purtroppo era occidentale, adesso è terzomondista, se ne lamenta da anni proprio Harold Bloom).
Ecco perché l'unico che si salva è Roberto Bolaño, perché non sembra un cileno. Non è mai predicatorio, non è mai civilmente lagnoso, casomai ce l'aveva a morte con l'establishment letterario, tipo Octavio Paz (altro Nobel). Piuttosto potrebbe essere un surrealista francese degli anni Venti (ma Breton l'avrebbe radiato subito per insubordinazione), o un membro dell'Oulipo, l'officina di letteratura potenziale fondata da Raymond Queneau e Francois Le Lionnais degli anni Sessanta.

Adesso Adelphi, che quando agguanta l'osso di un autore non molla e va avanti fino alla fine, ripubblica I detective selvaggi (pagg. 688, euro 25), uno dei romanzi di Bolaño più belli e monumentali, insieme a 2666. Che un po' ti fa pensare a Rayuela di Julio Cortázar (l'avevo dimenticato, un altro ottimo scrittore che non sembra argentino, però lui era naturalizzato francese) un po' alla versione messicana di Fratelli d'Italia, il capolavoro di Arbasino.

È quindi anche questo un romanzo sul romanzo, un percorso alla ricerca di un'identità poetica, e un grande libro bohémien di vagabondaggio intellettuale e amoroso, e anche di investigazione, come è sempre la letteratura («Anziché lo scrittore, mi sarebbe piaciuto fare il detective privato»). La storia, anzi le storie, è ingarbugliata e sbrogliata tra misteriose sparizioni, riviste di poesia, canne, ansie adolescenziali e pompini (stupenda la gara di pompini a Azcapotzalco), e ruota intorno a un movimento di scrittori, artisti e poeti che si chiama Realismo Viscerale.
«Sono stato invitato a far parte del realismo viscerale. Come è ovvio, ho accettato, non c'è stata nessuna cerimonia d'iniziazione. Meglio così» dice nell'incipit il diciassettenne Juan García Manero, e siamo a Città del Messico, nel 1975. Per ritrovarsi, dopo centinaia di racconti e di avventure raccontate dai realvisceralisti, su una Chevrolet, alla ricerca della poetessa Cesarea Tinajero. Ma il bello sono le riflessioni e i pettegolezzi sulla letteratura, che per esempio è suddivisa in tre categorie: «una letteratura eterosessuale, una omosessuale e una bisessuale. I romanzi in genere sono eterosessuali, la poesia, invece, è assolutamente omosessuale, i racconti, deduco, sono bisessuali». Mentre la poesia è tutta omosessuale, e suddivisa in varie correnti: frocioni, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi. Pablo Neruda era frocio, William Blake un frocione.

Non si salva neppure quel frocione di Leopardi: «Il fatto è che un poeta frocione come Leopardi, per esempio, ricrea in qualche maniera froci come Ungaretti, Montale e Quasimodo, il trio della morte». Fino a Pier Paolo Pasolini, perché «nello stesso modo Pasolini rivernicia il frociume attuale italiano, si veda il caso del povero Sanguineti (su Pavese non metto bocca, era una checca triste, un esemplare unico della sua specie, e su Dino Campana, che mangia a una tavola a parte, la tavola delle checche terminali)».

Comunque sia, etero o gay, frocioni o checche terminali, I detective selvaggi è un'opera memorabile, gioco e agonia, come la descrive il suo stesso autore, che per me è l'unico scrittore sudamericano sopportabile. Anche se «il problema della letteratura come nella vita, è che uno finisce sempre per diventare stronzo».

E infine da Città del Messico torni qui e ti viene da pensare che se il nemico da abbattere era comunque uno del livello di Octavio Paz, chissà cosa avrebbe fatto Bolaño se avesse conosciuto le mummie del Ninfeo di Villa Giulia.

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