Così il mostro sovietico ha insegnato al mondo come divorare la libertà

Un cittadino normale lotta contro l'arroganza del potere. E dovrà fare una dura scelta fra schiavitù e indipendenza

Così il mostro sovietico ha insegnato al mondo come divorare la libertà

da Cannes

Mostro marino nell'Antico Testamento, simbolo, per il filosofo Thomas Hobbes, dello Stato che in cambio della sicurezza toglie all'uomo una pericolosa libertà, il Leviatano sbarca in concorso a Cannes nel film omonimo di Andrey Zvyagintsev, già anni fa Leone d'Oro a Venezia per Il ritorno.

Leviathan racconta la storia di Kolia, che da sempre vive in una piccola città sul bordo del Mare di Barents, nel nord della Russia. Ha un figlio avuto dal suo primo matrimonio, è rimasto vedovo, ha sposato Lilya, fa il meccanico e il suo garage è a fianco dell'abitazione. Su quel terreno, solitario e come a picco sulla costa, mette gli occhi il sindaco, vecchio arnese della nomenklatura comunista riciclatosi nella nuova oligarchia post-comunista. Lo giudica perfetto per una speculazione edilizia, offre prima un prezzo stracciato, riesce poi a entrarne in possesso, mettendo la giustizia al servizio della sua politica: esproprio di Stato invece di esproprio proletario.

Kolia si rivolge allora a un vecchio amico, già compagno d'armi e ora avvocato a Mosca, che lo rassicura: la legge è dalla sua parete, i suoi diritti saranno rispettati. Finirà in tragedia, ma nella lotta contro lo Stato-Leviatano, tutti, tranne lui, fanno un gioco sporco. L'amico avvocato mette da parte il codice, minaccia il sindaco di rendere noti al vertice del sistema i suoi affari sporchi, ma intanto va a letto con Lilya e distrugge così l'antica amicizia e una famiglia. Il sindaco lo ripaga sequestrandolo e facendogli capire che lì comanda lui. Poi, con la connivenza della polizia locale, fa scattare la trappola che spedirà Kolia in galera.

Tutto, nella Russia descritta da Zvyagintsev, è marcio: i servizi pubblici, i rapporti umani, le antiche solidarietà, le fedi condivise. Si beve una quantità industriale di vodka, ci si diverte a sparare usando come bersaglio le immagini dei leader politici da Breznev in poi. Unici assenti, Eltsin, «troppo piccolo» per poterlo prendere di mira, e Putin: «Non c'è ancora il necessario distacco storico», dice ironicamente il capo della polizia che ha invitato Kolia al suo compleanno, ma che lo lascerà affondare senza muovere un dito.

Affidato al volto scavato di Alexey Serebryakov, Kolia è un Giobbe moderno senza possibilità di remissione: accetta le sue piaghe e quando cerca di conviverci, gliene arrivano altre. Si fida, e si ritrova tradito, proclama la propria innocenza, ma è considerato sempre e comunque colpevole. Epico e possente, il film ne racconta la distruzione.

«In Russia il tema del rapporto fra cittadino e Stato, meglio fra Uomo e Stato, è un tema classico» dice il regista. «Ma se io racconto il mio Paese è perché ci sono nato, è una parte di me. Sarebbe però un errore pensare che ciò che accade nel film sia una prerogativa della Russia di oggi.

Qualsiasi società, dalla più sviluppata alla più arcaica, deve confrontarsi con il tema della sicurezza, con ciò che si è disposti a cedere della propria integrità, della propria umanità. Nella vita di ciascuno di noi, arriva un momento i cui ci si ritrova di fronte al sistema e si deve fare una scelta fra libertà e schiavitù».

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