Così Rembrandt per ritrarre l'umanità sacrificò l'uomo

di Tzvetan Todorov

La pittura pensa e fa pensare, sebbene non sempre i pittori lo sappiano. Nel rappresentare il quotidiano Rembrandt non si limita a tradurre in forme visibili il mondo circostante, ma ci rende partecipi della sua concezione della vita umana.

Gli eroi e i santi che popolano le sue opere non sono diversi dalle persone che possiamo incrociare per strada, le quali meritano altrettanta attenzione. Rembrandt ha voluto carpire e rappresentare la verità di ogni situazione, di ogni gesto, si è raffigurato nei ruoli del mendicante e del principe, proiettandosi in tutti gli esseri umani (persino negli alberi) presenti nelle sue opere, sempre teso a penetrare nella loro intimità. Ha saputo spingersi oltre le apparenze, rendere i suoi personaggi seducenti e vulnerabili insieme, umani anche nella loro debolezza. Questo non è forse il principale ma è uno dei grandi messaggi trasmessici dalla sua pittura: una lezione di umanità e universalità. È grazie a queste qualità se ognuno di noi può riconoscersi nei suoi dipinti e ritrovarvi le proprie emozioni o i propri interrogativi.

Ma non è questo il solo pensiero suggerito dall'opera di Rembrandt. L'osservazione del rapporto fra le immagini e il loro creatore ci spinge infatti anche in un'altra direzione. A quanto pare, l'identificazione universale operata da Rembrandt ha un prezzo: gli individui sono sacrificati sull'altare della conoscenza dell'umanità. Il fatto che si riconosca in ognuno di loro lo porta però a estraniarsi da tutti. Nel disegnare questa o quella persona, nel cogliere pose e movimenti, sembra mosso dalla curiosità più che dall'amore; lavora con empatia più che con simpatia. Elsje è stata giustiziata il mattino e già nel pomeriggio bisogna accompagnare gli allievi sul luogo del supplizio, affinché abbiano la possibilità di vedere come si presenta un cadavere fresco, prima che cominci a decomporsi. Se i bambini avuti con Saskia muoiono, non è una buona ragione per non raffigurare altri bambini che crescono e mostrano tutta la loro gioiosa vivacità.

Gli autoritratti di Rembrandt vanno naturalmente interpretati con prudenza, perché il pittore non rappresenta tanto i propri stati d'animo quanto i ruoli che assume via via, ma questa stessa successione la dice lunga: si passa rapidamente dal giovane allegro e accattivante dei primi anni di matrimonio all'uomo cupo e disilluso del periodo fra il 1636 e il 1638, prima di approdare, al momento della malattia di Saskia, all'immagine del pittore sicuro di sé che guarda i contemporanei un tantino dall'alto in basso.

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