S iete neri ma sostenitori di Trump? Vi chiameranno black face, finti neri, zio Tom. Siete donne ed elettrici o peggio leader di partiti conservatori o sovranisti? Sarete considerate nemiche delle battaglie per «rompere il tetto di cristallo», se non proprio fasciste da rapare a zero. Siete infine omosessuali e non di sinistra? Sarete giudicati omofobi. Sembra uno scenario alla Achille Campanile ma è ormai la realtà quotidiana negli Usa e nel Regno Unito, come vediamo dal viaggio ideale compiutovi da Douglas Murray nel suo ultimo libro (The Madness of Crowds. Gender, Identity, Morality, Bloomsbury Publishing) Murray, neanche quarantenne, saggista e contributore del settimanale inglese Spectator e del Wall Street Journal è una delle teste d'uovo della Conservative Renaissance, la ripresa della cultura conservatrice nel mondo anglosassone; il suo libro precedente, La strana morte dell'Europa, è uno dei più ricchi per comprendere la fine del vecchio continente, cioè della sua identità.
Conservatore Murray ma all'inglese, quindi con spirito empirico e pragmatico: il fatto di essere poi omosessuale e di non negarlo, lo rende difficilmente classificabile tra i codini, che pure vanno rispettati. E siccome una delle prime qualità di un conservatore deve essere la curiosità, diversamente dalla noiosa e prevedibile rigidità ideologica dei progressisti, Murray in questo libro si immerge nelle contraddizioni della identity politics all'anglosassone. Che cosa significa? Che oggi i dati meramente biologici, essere maschio o femmina, essere bianco, nero, asiatico o latino, o le scelte sessuali, sono diventate delle «essenze», per cui uno si dovrebbe definire, e muoversi conseguentemente nel mondo, in base al suo essere uomo o donna, in base alla sua etnia o secondo con chi si accoppia sotto le lenzuola. E già questo è un impoverimento dell'individuo della tradizione occidentale, che è essere essenzialmente spirituale, di cui certo il dato di genere, quello etnico e anche quello sessuale contano, ma non tanto da definirne la personalità. E ancora meno da dettarne la scelte politiche. Oggi invece non è più così. Donne, neri, Lgbt erano un tempo perseguitati e derisi, e quindi le battaglie per affermare il loro diritto ad essere trattati come gli altri furono sacrosante. Ma a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, da quando comincia cioè negli Usa la politica delle identità, a questi gruppi non basta più l'equità di trattamento, vogliono la differenza, desiderano possedere maggiori diritti degli altri, e diversi. Soprattutto, non tollerano che li si critichi. Qualsiasi dubbio sulla bontà di prese di posizioni di organizzazioni femministe, nere, Lgbt, trans (e anche islamiche, benché Murray non ne parli) viene ricacciato con l'accusa rispettivamente di maschilismo, razzismo, omofobia, transfobia, islamofobia. Il suffisso fobia indica come venga trattato l'interlocutore, non più portatore della dignità di essere pensante, le cui affermazioni hanno diritto ad essere ascoltate, ma trasformato in una sorta di malato di mente.
Murray descrive decine di casi in cui questa politica delle identità tende a divorare se stessa. In luogo della «intersezionalità» orrenda lemma che sta a dire l'alleanza tra questi gruppi, avviene più spesso che no che essi si scontrino tra di loro. E per forza di cose: nel momento in cui l'universalità dell'essere umano viene decostruita in nome del suo ì genere, sessualità o colore della pelle, non può che avvenire questo. Fino al grottesco che investe tutti gli ambiti di vita e della cultura: mentre fino a pochi anni fa nessuno obiettava che la grande soprano nera Jessye Norman (scomparsa pochi giorni fa) interpretasse anche eroine nibelungiche, oggi il colore della pelle (e persino la sessualità) del cantante sono occasione per polemica infinite di queste crowds, cioè di folle fanatizzate, nel senso proprio di Gustave Le Bon, che prima creano la tempesta sui social e poi spesso scendono in strada e usano la violenza per impedire una rappresentazione teatrale o per tappare la bocca al supposto omofobo o razzista di turno. Murray, che in quanto conservatore anglosassone è anche naturaliter liberale classico, non si nasconde tuttavia che questa deriva è figlia del «dogmatismo liberale»; come tutte le derive, vuol dire però che c'era qualcosa di bacato fin nel liberalismo originario.
L'altro monito lanciato da Murray, anch'esso proprio della cultura conservatrice, e antidoto contro la follia delle nuove folle, è quello di non vivere di politica, di non considerarla cioè la principale ragione di vita e soprattutto di non costruire il proprio rapporto con il mondo attraverso questa, intesa sia come politica tradizionale che come politica delle identità.Il conservatore diffida profondamente della politica, un male necessario che proprio perché necessario non si può disdegnare ma che, in quanto male, va ben tenuto rinchiuso nei propri confini.
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