Durante il tour mondiale del 1972 Leonard Cohen si esibì alla Royal Albert Hall di Londra in un silenzio quasi doloroso nella sua intensità. «Bastava un colpo di tosse per sentirsi colpevoli», scrisse un critico. Poi fu chiamato a gran voce per un bis ma lui riapparve annunciando: «Non ho più nessuna canzone dentro» e se ne andò. È il Cohen che mette a nudo la sua anima, toccata da mille emozioni illusioni delusioni, il Cohen puro ma al tempo stesso già disincantato del suo primo romanzo Il gioco preferito, uscito nel 1963 e pubblicato in questi giorni da Minimum Fax insieme alla raccolta di poesie Libro della misericordia, in cui si confronta coi temi dell'amore, della morte, del divino.
Prima di diventare il padre dei cantautori dark, Cohen scrittore e poeta era già ciò che è oggi, un mito di culto che racconta la sua verità vivendo in eterno nel dubbio. Lui ama commentare: «Ho ricevuto il titolo di poeta e forse lo sono stato per un po'. E il titolo di cantante mi è stato gentilmente attribuito anche se a stento sapevo intonare un motivo». Eppure le sue ballate sono splendide perché incrociano realtà e azzardo visionario, catturano lo spirito che si sposa con la carne e partorisce inni mistici (e al tempo stesso pagani), cantati con quella voce cupa che sbuca dai sotterranei dell'Io come Hallelujah e Bird On the Wire, la plumbea Dance Me to the End of Love o la melanconica That's No Way to Say Goodbye. È il poeta delle emozioni oppure - come scrive nel libro, in cui il giovane ebreo Breavman è vive il suo complesso rapporto con la spiritualità, l'ebraismo, il sesso e l'amore - uno che ha scoperto che il mondo si lascia beffare da una disciplinata malinconia; che tutto ciò che occorre per essere amati è fare dello struggimento una virtù; che «l'intera impresa artistica è tutta una calcolata manifestazione di sofferenza»?
Cohen in realtà è entrambe le cose. È stato definito «poeta laureato in pessimismo», e ironicamente ha ricevuto una laurea honoris causa perché divenuto simbolo «dell'angoscia, dell'alienazione, del dubbio», ma lui spesso ripete: «Ho sempre pensato di avere un'anima comica». Ha vissuto e vive ricercando al tempo stesso il divino e la bellezza femminile. Ne Il gioco preferito racconta i suoi amori giovanili, l'amore per i corpi di Lisa, Heather, Bertha, Tamara quei corpi cui cantava lodi perché non sarebbero mai morti. «La realtà è una donna trasformata dall'orgasmo, tutto il resto è finzione», scrive. Tanti rapporti conflittuali con la «sua» Suzanne, con Joni Mitchell, con Nico (la voce dei Velvet Underground) «la perfetta regina ariana dei ghiacci» per cui perse la testa consolandosi sulla spalla di Lou Reed.
«Benedici il Signore, o anima mia, che ha fatto di te un cantante nella sua sacra dimora per sempre, che ti ha dato una lingua come il vento e un cuore come il mare, che ti ha traghettato di generazione in generazione sino a questo momento impeccabile di dolce smarrimento». O ancora: «Ammettimi ancora al giudizio, io che rifiuto di essere giudicato. Ammettimi alla misericordia, io che ho dimenticato la misericordia». Queste sono due delle «prose poetiche» con cui Cohen ricuce il suo rapporto con il divino nella raccolta Libro della misericordia, originariamente uscita nel 1984. La sua spiritualità è complessa e confusa; «nuota nella radice ebraica» ma per anni ha seguito il monaco Zen Seasaky Roshi, trasferendosi nel suo isolato monastero. Spesso fuggì a gambe levate da quel posto pieno di neve e fu fotografato ad Acapulco con taglio di capelli buddhista e sigaro in mano.
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