Nuove tendenze

Dietro le quinte del recente festival Umbria Jazz Winter di Orvieto si sono svolte vivaci discussioni fra alcuni esperti. Il festival era nel complesso pregevole ma le dispute volavano alto. In sede di cronaca si potevano leggere allusioni: buona musica (non sempre), sebbene certi gruppi avessero trascurato un punto importante: il jazz è fondato su un fattore differenziante come l’improvvisazione. Quindi non può volgersi all’indietro e ripetere il già detto senza venir meno alla propria essenza. I più anziani ricordavano che qualcosa di simile era stato detto sessant’anni fa - nientemeno - dal musicologo Giulio Confalonieri il quale, fra un concerto accademico e l’altro, non disdegnava il jazz migliore. Profetava che «questa è l’unica musica che rimarrà del nostro secolo», e alle obbiezioni dei colleghi li invitava ad aprire bene le orecchie, «perché i jazzisti ad ogni nota che suonano, anzi che improvvisano, fanno qualcosa che prima non è mai stato fatto». Era vero, ma Confalonieri aveva di fronte una realtà diversa dall’attuale. Allora bastava poco perché il jazz «virasse di prua» - così si leggeva nelle riviste specializzate - e inoltre stavano per arrivare i nuovi suoni di Gerry Mulligan, Chet Baker, Charles Mingus, Sonny Rollins, e più oltre di Miles Davis, Ornette Coleman, Cecil Taylor, Eric Dolphy e John Coltrane. Adesso il secolo del jazz di cui parlava Confalonieri è finito. E con esso è finito il jazz, sostengono i pessimisti. Vediamo. Nel 1988, battendo sul tempo altre iniziative, apparve in Germania un eccellente librone esaustivo sul Jazz, Musica del Ventesimo Secolo che aveva il sapore di un epicedio. Tre anni fa, una mostra multimediale con lo stesso titolo, allestita prima a Rovereto e poi a Parigi, sembrò analoga nel significato. Eppure, oppongono gli ottimisti sulla base di un libro recente dell’inglese Stuart Nicholson, il jazz non è morto con lo spirare del Novecento: si è soltanto spostato in altri centri di produzione. Non più l’America, ma l’Europa prima di tutto, e poi il Giappone.
Unanimi, a Orvieto, sono stati i pareri sul magnifico Evolution Ensemble della cantante americana Dee Alexander, un organico - e un esito - più classico-contemporaneo che jazzy. Un accordo è stato raggiunto sul concerto multimediale One Hand Jack, testi di Stefano Benni, musiche eseguite da Enzo Pietropaoli contrabbasso e Julian Pazzariello pianoforte. Inutile precisare che il «vero jazz» non si addentrava in questi sentieri. Terza scelta, i concerti di solo pianoforte proposti da Danilo Rea, fitti di influenze molteplici fra le quali primeggia il melodramma italiano. Anche qui, il «vero jazz» (salva l’eccezione del sommo Art Tatum) non amava il pianoforte solo: lo esigeva in trio con il contrabbasso e la batteria.
E allora? Tanto vale ammetterlo. È vero che il jazz si è trasferito dall’America all’Europa, ma la voce dei cantori non è più quella, anche perché dei maggiori maestri sopravvivono soltanto Ornette Coleman, Cecil Taylor, Sonny Rollins, Randy Weston, Martial Solal e pochi altri.

Il vero jazz dotato dell’essenziale improvvisazione, di un linguaggio musicale con etimo nel blues nero-americano e spesso del «tempo», cioè di un dinamismo particolare chiamato swing, non c’è più. Niente paura. I mezzi di riproducibilità tecnica delle sue opere sono ormai tali da poterne fruire per sempre, nel presente e nel futuro.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica