Più che un film, una dichiarazione d’amore al cinema, anzi una dichiarazione d’amore al cinema d’azione. Sam Mendes, talentuoso regista britannico, ha confezionato infatti il più sofisticato tra tutti gli «007» riempiendolo di «autocitazioni», quasi una carrellata dei più bei titoli della serie, ma anche di riferimenti alle pellicole che hanno fatto la storia del cinema.
Dopo aver diretto film molto apprezzati dal pubblico e dalla critica, come American Beauty (1999) o Revolutionary Road (2008), Mendes ha voluto cimentarsi con l’avventura, genere in cui è entrato in punta di piedi e con grande umiltà. Come dimostrano le tante affettuose «strizzate d’occhio» sparse lungo il film alle altre puntata della saga di 007 che hanno preceduto Skyfall. Come il dossier in mano a James Bond dal famigliare titolo «For Your Eyes Only», come il film del 1981 con Roger Moore. La collega Eve alla fine della storia diventerà assistente di M, presentandosi come «Eve Monneypenny», stesso cognome della storica segretaria del capo dell’MI6. A Macao, James Bond, per uscire dalla fossa dei draghi di Komodo, salta sulla testa di un animale come aveva fatto nel 1973 Moore con dei coccodrilli in «Vivi e lascia morire».
C’è poi il catalogo «armi segrete», per la verità piuttosto striminzito tanto che il nuovo Q si sente in dovere di giustificarsi, spiegando come siano obsoleti oggetti tipo penna esplosiva. Casualmente usata da Pierce Brosnan in «GoldenEye» nel 1995. Poi c’è la mitica Aston Martin DB5, consegnata per la prima volta a Sean Connery in «Goldfinger» nel 1964 e utilizzata anche l’anno dopo in «Thunderball». Infine la famosa pistola PPK, apparsa per la prima volta in «Licenza di uccidere» del 1962 quando Q spiega a Bond che la sua Beretta 25 è più adatta a stare nella borsetta di una signora che in mano a un agente segreto di Sua Maestà. E gli propone appunto una «Polizei Pistole Kriminal» fabbricata dalla Walther in calibro 7,65. Dopo 50 anni l’arma si è evoluta ed è passata al 9 millimetri. Ma viene dotata di riconoscimento dell’impronta digitale, come la macchina fotografica-fucile di «Vendetta privata» del 1989 con Timothy Dalton.
Esaurite le dichiarazioni d’amore ai precedenti episodi della serie, iniziano quelle assai più sofisticate ad altri film, primo tra tutti la spericolata corsa in motocicletta della prima scena, che richiama quella di Steve McQueen in «La Grande Fuga» (1963) di John Sturges. Subito dopo essere stato ferito, nella mente di James Bond appaiono varie scene compresa quella in cui, prigioniero in un labirinto di specchi, spara alla sua immagine riflessa. Giusto come il protagonista della «Signora di Shanghai» (1947), capolavoro noir in cui Orson Welles diresse una enigmatica Rita Hayworth, sempre pronta a tradirlo. Giusto come la ambigua M interpreta da Judi Dench. Mentre l’atmosfera buia e tetra del grattacielo di Shanghai da cui Daniel Craig lascia cadere il killer Patrice, sembra uscita pari pari da «Blade Runner» diretto da Ridley Scott nel 1982. Ma c’è spazio anche alla fantascienza più «pura» ed ecco Bond cadere nell’arena popolata da due draghi di Komodo, uno dei quali poi azzanna il nemico di turno. Come capita al Luke Skywalker all’inizio del «Ritorno dello Jedi» (1983), lasciato precipitare dal perfido Jabba nell’antro di un terrificante mostro. Un raffinato regista come Mendes non può ignorare il genere Western, ed ecco rispolverare una pellicola tutto sommato poco conosciuta «Il solitario di Rio Grande» (1971) di Henry Hathaway. Alla fine della vicenda, Gregory Peck si vendica del cattivo che ha fatto il tiro al bersaglio con una tazza da tè sulla testa della figlia, e gli mette in equilibrio sulla zucca un bicchierino di wiskey, proprio come Silva con Sévérine. Il cattivo dentro la gabbia di vetro ricorda molto Hannibal the Cannibal del «Silenzio degli Innocenti» (1991) mentre l'assalto con l'elicottero contro Skyfall con la musica sparata a tutto volume arriva dritto dritto da «Apocalypse now» (1979).
Skyfall si dimostra dunque l’opera colta di un regista in grado di muoversi con grande agilità e sicurezza lungo qualsiasi asse cinematografico, rivelandosi, tra i suoi molti meriti, anche una piacevole e sofisticata cavalcata negli ultimi sessant’anni di storia del cinema d’avventura. E scusate se magari ci siamo persi per strada qualche altro «omaggio».
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