Ma a che punto è giunta la riflessione sui giganteschi fenomeni migratori attuali? C'è qualche pensatore che sta elaborando ricerche economiche e previsioni che vadano oltre i refrain buonisti dell'«accogliamo tutti» o i vecchi schemi nazionalisti?
Negli Usa ad esempio sta portando avanti uno studio attento George Borjas, professore di Economia e Politiche sociali dell'Università di Harvard. In libri come We Wanted Workers o Heaven's Door ha analizzato il complicato tema del rapporto tra immigrazione e ricchezza negli Usa. In Europa il caso statunitense viene citato sempre e soltanto come modello a cui ispirarsi, per aver fede nel mantra immigrato uguale risorsa. Borjas fornisce una disamina molto più articolata. Come spiega nel suo ultimo volume (We Wanted Workers) gli Usa non sono più l'eden dell'integrazione, anzi. E per lui l'ingresso di immigrati provenienti dall'estero non è più un processo di libero mercato quanto piuttosto «una politica di redistribuzione portata avanti dal governo come tante altre».
Insiste anche sul fatto che l'assimilazione nella nuova cultura non è qualcosa che si cala dall'alto. Il punto di partenza è dato dal fatto che l'immigrato deve innanzitutto desiderare di essere integrato. Immigrato lui stesso, Borjas sa benissimo che l'immigrato non è un robot, neanche sempre e soltanto un lavoratore, è un essere umano. E quindi porta con sé variabili imprevedibili. Da economista ha però esaminato un dato inconfutabile: il reddito. Se chi arrivava negli Usa prima degli anni Ottanta vedeva crescere il suo reddito da lavoro al ritmo del 10% (un bell'incentivo all'integrarsi), per chi è arrivato dopo la crescita è stata infinitamente più bassa. Esattamente come ha dimostrato che con una immigrazione incontrollata si innescano moltissimi meccanismi che scompensano la società. Anche tra gli immigrati stessi. Ci sono gruppi etnici di successo, negli Usa i cinesi (spesso con alti titoli di studio), e gruppi fallimentari (i numerosissimi messicani hanno redditi mediamente molto più bassi). Ci sono professioni congestionate dall'immigrazione, e il cui potere contrattuale crolla, e altre non toccate. Insomma l'immigrato Borjas dimostra che l'immigrazione non fa bene a tutti. Non ha ricette in tasca, ma di sicuro ha delle evidenze che il Laissez-faire in campo immigrazione deve essere esercitato all'interno di precisi paletti. Paletti che sono una cosa diversa da un muro.
Sulla stessa lunghezza d'onda l'economista inglese Paul Collier, che insegna all'università di Oxford. Il suo Exodus. I tabù dell'immigrazione è stato tradotto anche in italiano (da Laterza) ma non sembra abbia molto influenzato il dibattito di casa nostra. Eppure lo studio di Collier mette in luce dati interessanti. Ad esempio la curva dell'immigrazione ha la tendenza a non fermarsi a meno che ci sia da parte del Paese ospite un preciso intervento legislativo per metterla sotto controllo. Collier mette in luce anche come superata una certa dimensione le comunità di immigrati perdano interesse nell'integrarsi. Semplicemente sono così estese che l'integrazione non è più una necessità. Lo studioso dimostra dati alla mano come mercato e società si basino, essenzialmente, sulla fiducia. Se un'immigrazione troppo massiccia cambia la base dei valori condivisi, e quindi fa crollare la fiducia reciproca, questo semplice fatto può trasformarsi in un costo sociale altissimo. E costo sociale è il modo educato con cui gli economisti indicano violenza e crollo del Welfare.
Su questo sia Collier che Borjas si muovono praticamente in parallelo: se si vuole un alto tasso di immigrazione bisogna, quasi di sicuro, rinunciare al Welfare State. Un Welfare imposto dall'alto non è certo l'idea più gradita a chiunque parta da principi liberali. Però anche in questo caso, un ragionamento va fatto, perché tra coercizione e assenza di regole uno Stato deve comunque cercare una mediazione.
Questo a prescindere dalla cultura. L'Occidente è caratterizzato, o dovrebbe esserlo, da una cultura laica e liberale. Nelle sue riflessioni il sociologo Robert D. Putnam di Harvard ha chiaramente dimostrato che gli immigrati si portano dietro la loro cultura. Può essere un bene, ma anche il contrario. Esistono culture decisamente illiberali e far finta del contrario non è sano. E forse nemmeno liberale. Lasciare che la situazione degeneri, per poi assistere a reazioni di pancia presenta pericoli gravi. La sinistra non li vede. Chi li ha denunciati, come in Italia Giovanni Sartori - basti pensare a Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica-, è stato messo, almeno su questo tema, in un angolo.
Il pensatore che, però, ha cercato di porre il problema in una ottica più ampia, e quasi filosofica, è il professore di Oxford David Miller. Il suo recente saggio Stranger in Our Midst. The Political Philosophy of Immigration (Harvard University Press) esce dall'analisi dei fatti per concentrarsi su una soluzione politica. Ha una impostazione che definisce lui stesso «Nazionalismo liberale». Un modello di accoglienza prudente che cerca di bilanciare i vantaggi economici dell'immigrazione (quando ci sono) con i vincoli di accettabilità sociale. I principi di base della teoria sono una manciata. Il più rilevante è il cosmopolitismo debole. Esistono diritti universali dell'individuo e in determinati casi questi diritti vanno difesi anche con l'accoglienza, però ciò che informa le nostre esistenze sono i legami privilegiati con la famiglia, gli amici, i concittadini. Con essi condividiamo ricordi e tradizioni. Tutte cose che non possono essere sradicate sulla base di un principio astratto. Quindi è lecito imporre restrizioni all'ingresso dello straniero. Devono essere però restrizioni chiare e normate e che tengano conto dei casi limite (veri profughi). Miller insiste anche sull'autodeterminazione nazionale. In una democrazia, i cittadini devono poter dire se uno sforzo d'accoglienza per loro è accettabile oppure no. Non può essere imposto. Il diritto al no deve però essere esercitato con «equità», in modo liberale. Si può limitare l'accesso sulla base di criteri oggettivi: livello di istruzione, qualifiche. Come si può limitare l'accesso sulla base della condivisione dei valori democratici. Non si può certo fare su basi razziste. E Miller insiste anche molto sulla necessità dell'integrazione. Che non è né assimilazione né multiculturalismo. Per fare l'esempio più banale: non si può vietare il velo a scuola. Men che meno un migrante musulmano può però protestare se in classe c'è una croce, è una tradizione radicata a cui deve adattarsi. Però non esistono deroghe alla legge e alla sicurezza.
Non si può entrare in aeroporto a viso coperto né andare in moto col turbante e senza il casco (sembra folle ma in Gran Bretagna i Sikh posso farlo).Vi sembra solo buon senso? Il saggio di Miller, come quello di George Borjas e prima quello di Paul Collier, hanno suscitato un vespaio. Non Italia però, in Italia si fa solo finta di niente.
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