Prima visione

Clint Eastwood non è stato un grande attore; per un certo tempo non è stato nemmeno un grande regista. Ma è sempre stato un grand’uomo, e non solo per il suo 1,94 di statura.
Da lui diretto e interpretato, Gran Torino mostra ulteriormente come negli ultimi anni si sia preso carico delle responsabilità degli Stati Uniti durante la sua adolescenza e gioventù. Col dittico di Flags of our Fathers / Lettere da Iwo Jima, ha chiuso il conflitto fra il suo popolo e quello giapponese. Con Gran Torino chiude ora il conflitto fra il suo popolo e quelli coreano e cinese. Speriamo che abbia il tempo, con altri magnifici film, di chiudere il conflitto con tedeschi, italiani, russi, domenicani, vietnamiti, cambogiani, panamensi, somali, sudanesi, libici, iracheni, serbi… Lunga è la lista di chi ha preso in testa bombe americane. A commuovere è che Eastwood non sia mai stato un pacifista: i suoi personaggi hanno sempre ucciso con la stessa disinvoltura con la quale - come diceva mia nonna - sputavano per terra. In Eastwood non c’è piagnisteo, c’è la constatazione malinconica che il mondo è così. Non c’è quindi l’illusione di redimere, ma c’è il dovere di rendere omaggio al valore (e al dolore) dei nemici, col rispetto che i valorosi hanno per i valorosi.
Il magistrale sergente di Gunny, il film sobrio che mise in ombra la ridondanza di Full Metal Jacket, si reincarna nell’ex operaio della Ford (che nel 1972 fabbricava la Gran Torino) che ha visto il crepuscolo del sogno americano. I reduci dalla Corea - dove Eastwood fu realmente militare - si sono quasi estinti; la Ford stessa si è quasi estinta. Uno dei figli del reduce ha - orrore!- un’auto giapponese. I figli dei figli hanno quella miscela di cattivo gusto, cattiva educazione e cattiva indole che rende inevitabile il rimpianto di quando i popoli avevano un’esigua borghesia, modellata sull’aristocrazia, non uno sterminato ceto medio modellato su stesso.


C’è tutto questo dietro la vicenda di un ragazzino Hmong, che cerca di rubare la Gran Torino, e del vecchio proprietario, che vorrebbe sparargli e finisce per adottarlo. È l’ultima manifestazione della capacità che un conservatore ha di essere diffidente, senza essere xenofobo. Non perché la xenofobia sia un razzismo tenue, ma perché è la paura di chi ha paura di noi.

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