E adesso tutti scoprono l'Uruguay. Qualche giorno fa l'avevano liquidato con qualche risatina: la sconfitta con la Costa Rica sembrava l'ora del pensionamento di un'intera generazione, l'ennesima fine di un ciclo della Celeste. Poi la Costa Rica ha beffato anche l'Italia di Prandelli e Balotelli, il materasso ha vinto il girone in due partite, mentre le superpotenze si devono giocare il posto rimanente, e l'Uruguay è diventato improvvisamente un incubo. Ha già fatto piangere Roy Hodgson e i suoi ragazzi, spediti a casa in due mosse, e si è riguadagnato la considerazione del pianeta calcio. «Abbiamo davanti due finali», aveva detto il Maestro Tabarez prima di affrontare gli inglesi, e sembrava la solita frase fatta di tutti gli allenatori. Ma adesso anche Josè Murinho gli dà ragione: «Italia-Uruguay per me è una finale mondiale».
Già, Italia-Uruguay: quelli che una settimana fa erano finiti sul carrello dei bolliti, diventano il fantasma delle notti azzurre. Anche perchè l'Uruguay non è mai stato un avversario tenero per l'Italia: dalle lezioni olimpiche degli anni Venti alla finalina della Confederation 2013. Tra noi e loro c'è una storia intrecciata da cent'anni e forse più. Qualcuno ha scomodato persino Garibaldi e la sua Anita trovata a sposata proprio a Montevideo. Ma qui gli eroi dei due mondi sono altri: sono i tanti italiani di ritorno, figli di emigranti e azzurri di complemento, da Michele Andreolo a Ettore Puricelli, da Alcide Ghiggia a Pepe Schiaffino. Ma sono anche gli artisti che sono venuti a suonare il loro calcio qui da noi, con lo stile di Francescoli e Recoba o con la garra di Aguilera e Montero. Fino al Matador Cavani che ha incantato Palermo e Napoli.
Artisti o maestri, come quell'Oscar Washington Tabarez che tra la sua prima Celeste (Mondiali '90) e la seconda (Mondiali 2010-14) ha trovato modo di venire al Cagliari e al Milan, dove forse è stato congedato un po' sbrigativamente, visto che anche il suo successore Sacchi non riuscì a cavare un solo acuto da quell'orchestra un po' in disarmo. Qui invece il maestro Tabarez può far suonare due primi violini come Cavani e Suarez, due gioielli dal destino parallelo, nati a pochi giorni e a pochi chilometri l'uno dall'altro nella città miracolosa di Salto, a 500 chilometri da Montevideo, lassù al confine con l'Argentina. Terra miracolosa perché da lì è arrivata anche la prima vera leggenda nella storia dei mondiali, Josè Lenadro Andrade, la maravilla negra, mediano e vero leader di quella nazionale che vinse due Olimpiadi e il primo Mondiale nel 1930, fenomeno che coniugava le due anime del fùtbol uruguagio, la fantasia e la garra.
Già la garra, la grinta, la garra charrua, come dicono laggiù, eredità degli indios che popolavano quel pezzo di Sudamerica, quella che era improvvisamente evaporata nel secondo tempo con la Costa Rica e che è riapparsa a San Paolo contro l'Inghilterra. La garra che ha spinto El Pistolero a colpire al cuore la sua patria di adozione, che ha fatto restare in campo un eroico Alvaro Pereira nonostante fosse uscito tramortito da una ginocchiata di Sterling. Contro l'Italia Tabarez dovrà rinunciare ancora al suo capitano, Diego Lugano (già rimpiazzato decorosamente contro gli inglesi dal baby Gimenez, quello che viene già definito il nuovo Montero), ma non rinuncerà di certo al coltello tra i denti. E ai gioielli di Salto.
A proposito, era di Salto anche Pedro Rocha, grande bomber degli anni Sessanta-Settanta: giocò quattro mondiali, ma saltò la sfida con l'Italia a Toluca nel '70. Finì 0-0, proprio il risultato che servirebbe martedì a Prandelli...
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