In Scozia l'ultimo tracollo dell'Italia ovale Il solito «cucchiaio» è una vera umiliazione

Due tornei senza vittorie per una Nazionale che si è esaltata solo per un trucco

Paolo Bugatto

Edimburgo Ne parlerà con il presidente, Conor O' Shea, portando in dote il secondo cucchiaio di legno di fila, il primo sotto la sua gestione. Per l'Italia del rugby ancora un whitewash dopo la sconfitta per 29-0 rimediata a Murrayfield contro la Scozia. Si chiude nel peggiore dei modi, un po' come era accaduto lo scorso anno a Cardiff. Il torneo è da dimenticare. 5 sconfitte, 201 punti subiti, appena 50 quelli realizzati. In classifica zero punti per dirla alla Mourinho. O'Shea ha ragione quando dice che il lavoro è lungo e che la strada da fare è tanta. Il suo è un mantra che oggi è un alibi venato di realismo. Non basta battere il Sudafrica o prendersi gioco dell'ortodossia inglese sulla ruck per dare una svolta ad un movimento anemico che esprime una Nazionale mediocre. Il Sei Nazioni è servito per riportarci con i piedi per terra. A Murrayfield tra indisciplina e palloni regalati, tutto facile per gli highlanders, un po' come è accaduto sempre in questa edizione. Quattro mete e punto di bonus per gli avversari. Due anni fa li avevamo battuti a domicilio, questa volta ce li hanno restituiti con gli interessi al termine di ottanta minuti tutto sommato anonimi. Senza Favaro e Campagnaro, spicca la solitudine di Parisse in un coro di eterne promesse.

E' un'Italia con poco carattere e che non sa salire in cattedra. Attacca male, segna poco e si deve attaccare al sofisma della ruck-non ruck per nascondere la polvere sotto il tappeto. Anche a Murrayfield ci abbiamo provato inflazionando la rimessa laterale in zona d'attacco per regalare palla agli avversari. Per non parlare delle scelte conservative pur di non essere costretti a tirar fuori gli attributi. Se, sul tabellone, alla voce Italia si legge zero è stato anche per questo.

Il rischio è che a fallire sia l'intero sistema Italia. Zebre e Treviso che da anni hanno affittato le ultime due caselle della classifica del Pro12, la dicono lunga sulla nostra consistenza in campo internazionale. Se poi aggiungiamo un campionato di eccellenza che solo in parte sforna talenti da proporre in azzurro, e se mettiamo anche i ragazzi dell'Under 20 che vengono legnati a scadenze regolari ecco che il dramma è su tutta la linea. Quest'anno non c'è stata partita che non abbiamo perso, tra prima squadra e azzurrini.

Per questo il lavoro lungo da fare è soprattutto quello di Stephen Aboud, chiamato a dare una sistemata al serbatoio e fare una scelta: continuare a costruire in casa le premesse per essere competitivi nell'alto livello oppure seguire la strada del passato e affidare alla maggiore competitività di altri campionati la maturazione dei nostri migliori giocatori.

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