Zanetti, direttore maresciallo passava dai potenti alle «brevi»

La sua Gazzetta dava dignità a tutti gli sport, era critica nei rapporti con il Palazzo e sapeva allevare i giornalisti

Zanetti, direttore maresciallo passava dai potenti alle «brevi»

Q uando nel lugubre 8 gennaio del 1987 lo hanno portato al Verano nessuno piangeva. Se lo avessimo fatto avremmo sentito la risata di Gualtiero Zanetti, il direttore di giornale che tutti avrebbero voluto, la guida ispirata della Gazzetta dello Sport dal 1961 al 1973. Non amava quelli che se la tiravano troppo, quindi era contro i funerali dove il morto voleva stare ancora al centro dell'attenzione. Una sua forza, o forse debolezza, aveva imparato a respirare con il mondo intorno a lui sui sottomarini, amava la luce, ma anche le tenebre della professione. Per questo è stato, probabilmente, l'ultimo direttore di giornale che sapeva essere ammiraglio, ma anche educatore. Gli piaceva il confronto con i grandi che in quella sua Gazzetta erano davvero tanti, ma sentiva di dovere qualcosa alla professione allevando chi usciva dal guscio e tentava una strada. Li esaminava tutti, raccomandati, eh sì, cara gente il Paese è questo, e scapestrati. Aveva i suoi redattori di fiducia, gli uomini che valutavano, graffiavano, insegnavano, da Violanti e Garavaglia nel calcio, da Palasciano nel giardino delle varie, al circolo magico del ciclismo diretto da Bruno Raschi, per far filtrare tutto nell'acquario dove valutavano Imbastaro e Mottana.

Scivolare sul ghiaccio della vanità era facile, ma se ti serviva un salvagente per diventare qualcosa di meglio di quello che pensavi di essere, ecco il maresciallo Zanetti. Se avevi vocazioni poetiche bussavi alla sua porta. Se lo convincevi, come potrebbero testimoniare Mura e Franchetti, pagava di persona e allora si pubblicava. Se non ce la facevi ti dava un'altra possibilità. Magari nel giornalismo di oggi gli editori, i direttori, la pensassero ancora così. Avremmo qualcosa di speciale persino nelle brevi. Quando entrammo in questo giornale, sotto la guida di Carlo Grandini, con Alfio Caruso ed il compianto Silvano Tauceri che ci ha lasciato da poco, la cosa che colpì un po' tutti fu l'amore della redazione sportiva, una invenzione montanelliana, per le «brevi», come diceva sogghignando il geniale Bettiza che per primo scoprì ai tempi del piombo che lo sport doveva avere una sua dignità.

Ecco, sulle «brevi», Gualtiero Zanetti cercava la tua passione. Certo, poi ti dava spazio per cercare in spazi più larghi, ma non regalava dei paracadute. Per arrivare a giudicare i migliori dello sport dovevi prima scavare in miniera, scendere nell'inferno del mistero agonistico e se ti venivano le vertigini in parete allora ti affidava alla sua Redazione, gente che sapeva indicare una strada: da Berra a Cassani, da Anghileri ai Gianoli, per stare nelle varie, e se volevi sentir cantare un motore allora nessuno era meglio dell'ingegner Benzing, che leggete tante volte sul Giornale, l'unico che avrebbe messo in difficoltà questo Direttore che considerava la Gazzetta dello Sport bibbia, ma anche libretto rosa per la politica sportiva che aveva bisogno di basi ideologiche. Eh sì, il Benzing respinto alle porte di Maranello il giorno in cui Enzo Ferrari presentava una nuova macchina per la Formula 1, fece diventare più luminosi gli occhi di questo romano nato a Bologna il 15 febbraio del 1922, occhi che erano ghiaccio, ma anche anticamera di affettuose complicità. Ma come, Ferrari che chiude le porte in faccia ad un inviato della Gazzetta? Ci pensò qualche minuto e poi telefonò a Maranello. Poteva essere guerra, ma fu subito pace dopo la risposta del Drake: «Vuol sapere perché l'ho chiuso fuori? Perché lui capisce e non volevo critiche, anche se giuste». Un trionfo davanti alla verità e alla competenza facendo entrare in campo Machiavelli, la scienza della grande politica sportiva di cui Zanetti era davvero un maestro come avrebbe potuto dire il suo amico Giulio Onesti e i presidenti del Coni venuti dopo di lui.

Lui sussurrava ai cavalli, ma sapeva anche come stare al tavolo dei potenti. Aveva inventato i Senza titolo che erano pepe e miele, poche righe per far intendere a chi pensava di essere onnipotente. Non ci sono libri del Zanetti pensiero, ma ci sono raccolte di giornali che erano meraviglie dove lo sport era trattato davvero con amore, affetto, a patto che ci fosse competenza.

Entrammo in quel giardino amando il basket, minacciati di perdere tutto se non avessimo cercato altrove la nostra strada. Quindi atletica, prima gli europei juniores della generazione dorata, quella di Mennea e Sara Simeoni, poi, per uno schiaffo del destino che rubò l'immensità ad Alfredo Berra, l'europeo di Helsinki nel 1971. Non tutti erano d'accordo. Lui si giocò la carta dell'orso. Ben protetto dalla competenza di chi era in redazione e da chi era volato in Finlandia, partendo da Quercetani. Avendo capito il clima creato dalla concorrenza si presentò ad Helsinki per le ultime giornate. Protettivo, ma anche curioso di vedere sul campo.

La sua forza era proprio questa. In quegli anni era davvero difficile andare contro le grandi sorelle del calcio, ma la sfida di Cagliari, di Scopigno, del suo amico Arrica, di Gigi Riva lo elettrizzava e allora ecco Franco Mentana inviato fisso nell'isola. Nessuno osò discutere. Fu un trionfo. Come trionfali furono le campagne americane di Maurizio Mosca per l'epopea di Nino Benvenuti nella boxe. In tanti gli dovevano qualcosa, ma bisognava faticare, rispettando la professionalità e la competenza.

Era la sua grande ossessione e sul questo Giornale chi lo ha letto può testimoniarlo, così come alla Domenica Sportiva dove andò a raccontare lo sport come piaceva a lui dopo aver vissuto da Cesare la rivolta dei veterani alla Gazzetta. Lo pugnalarono anche figli suoi, ma non cercò mai la vendetta.

Sapeva come andavano le cose nel mondo e non si è mai compiaciuto quando trovava gente che non riconosceva più la Gazzetta dove ogni sport aveva la sua dignità, indipendentemente dalla popolarità. Lo ricorderemo sempre e non solamente perché fu il primo a credere negli smaniosi come noi.

(26. Continua)

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