La situazione è disperata ma non seria. C’è della vitale ironia, infatti, in un Guido Ceronetti che per quasi una settimana porterà «crisantemi ai vivi» sotto forma di spettacoli teatrali di strada, invitando poi gli spettatori a salire sul palco (o sul marciapiede?) a raccontare la propria personale disperazione, a «mettere a nudo la propria pena».
Vietate registrazioni e videocamere: «Non è un’esibizione e nessuno si strapperà i capelli», ci dice Ceronetti. Piuttosto, pare attività di mutua assistenza tra guitti degli abissi dell’anima. Anche loro ogni tanto trovano urgente sfogarsi: Cioran parlava a notte fonda con le prostitute, qui potrete narrare le vostre pene a chi, per affinità di lacrime, è quasi vostro consanguineo e conosce l’importanza del prestar orecchio. Appuntamento, dunque, per il 22 giugno fino al 25 o forse il 26: «Dipende da quanto il mio corpo resisterà alla fatica. Ma è uno spettacolo che sto organizzando, il programma potrà cambiare ancora», spiega l’autore di La pazienza dell’arrostito, uno dei più bei voyage en Italie che conosciamo, libro del 1990 fortunosamente ancora in circolazione per Adelphi. Se potete, cercate anche le raccolte degli articoli di Ceronetti: Briciole di colonna e Lo scrittore inesistente (edite da «I libri di La Stampa», questi davvero fuori commercio: breviari di piccole apocalissi). C’è pure molta attesa per le novità: all’inizio di maggio esce per Adelphi In un amore felice: «Il mio unico romanzo. E sarà ben più maturo di Aquilegia» ci dice Ceronetti. E per giugno Einaudi darà alle stampe Ti saluto mio secolo crudele.
Ma torniamo al festival dei disperati. La cornice del progetto speciale «Cinema, teatro e disperazione» è quella più ampia del «Festival delle colline torinesi» (dal 3 al 23 giugno) e conterrà anche un addio: quello di Ceronetti al teatro, per raggiunti limiti di fatica fisica. Prove aperte, dunque, al Teatro Gobetti il 22 giugno, poi Finale di teatro la sera successiva alle 21. Il 24 invece, giorno di San Giovanni (patrono di Torino; fuochi artificiali sul Po da piazza della Vittoria), Ceronetti terrà alcuni spettacoli di teatro di strada con la «Lola», il suo organetto di Barberia. E così, forse, anche il 25, stesso giorno in cui Mario Botta parlerà di «Architettura e spazi di disperazione» al Museo del Cinema e commenterà l’Eur vista da Antonioni ne L’eclisse. Nel frattempo, dal 21 al cinema Massimo, sarà partita una maratona di dieci film sul tema della disperazione, tra cui Il grido, Dies Irae, Viale del tramonto, Germania anno zero, Alba tragica. «Ma in nessun caso disperazione legata al denaro», commenta Ceronetti, «quanto piuttosto alla città, alla dimensione metropolitana, dove la disperazione trova più terreno fertile».
Coloro che rimangono già da oggi infastiditi (intellettualmente o sentimentalmente) da tutte queste geremiadi devono sapere che, nella cultura d’Occidente, la disperazione è prassi mentale quotidiana, attività più «responsabile» di quanto si immagini. «Giobbe, Amos, i Salmi di Babilonia. Ritroviamo la disperazione fin nei testi biblici - ci dice Ceronetti -. Poi, lungo i secoli, è diventata quasi il legame di una confraternita di solitari che si riconoscono al primo sguardo. Non c’è filosofo che non vi abbia fatto riflessioni. E Beckett, Cioran, in genere “quelli del ventesimo secolo”: ciascuno ha battuto su questo tasto dell’anima con ferocia, senza ottimismo esistenziale. Non mi riconoscerei, invece, negli eccessi un po’ snervati di malinconia di Svevo. Alla sua Novella del buon vecchio e della bella fanciulla continuo a preferire La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj, zuppo di vita: sarà forse per il contatto dell’autore con la natura russa. E poi c’è la lunga catena delle depressioni private, anonime, un mare senza fine, sconfinato, torbido, turbolento: proprio a queste volevo dar voce nel “Festival dei disperati”. A un certo punto ho pensato: se dovessero prendere parola dei detenuti, quante storie orribili potrebbero raccontare! Ma non darei la parola a professionisti della confessione intima, come psichiatri e psicanalisti, in ispecie i lacaniani, perché la loro testimonianza risulta già filtrata dal preliminare rapporto culturale con le sciagure umane».
Ascoltando questi pensieri, si fa sempre più interessante questa ipotesi ceronettiana di «lavoro non disperato sulla disperazione», una specie di compito sociale dell’arte del teatro di strada. «Mi inserisco - spiega Ceronetti - in una lunga tradizione dell’ascolto. Quelli che prima andavano dal prete, oggi si portano sempre dietro il numero di cellulare dello psicanalista. Non è cambiato molto.
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