Lo stendardo di Lepanto non ce l’hanno i turchi Si trova ancora a Gaeta

Dott. Granzotto, il prossimo 25 maggio mi imbarcherò a Palermo sulla «Fantasia». Mi sono prenotato, credo fra i primi, perché vorrei avere il piacere di parlare, soprattutto con lei, di tante cose che ci accomunano. Sono di Messina, la città che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della Battaglia di Lepanto, la città che onora Don Giovanni d’Austria con una statua in bronzo di Andrea Calamech. Vorrei pure ricordare che fra i relativi cimeli, oltre alla «Cruz de Lepanto» c’era pure lo «Stendardo di Lepanto», trofeo e simbolo di quella vittoria decisiva per le sorti dell’intero Occidente. Purtroppo il Pontefice Paolo VI lo ha restituito ai turchi, secondo me avventatamente, dimenticando il sacrificio degli 8mila eroi della Lega Santa che morirono per la salvezza del Cristianesimo. A presto, dunque, e mi consideri fra i prenotati al «Cangrejo Loco».
Messina

Certo, caro Caratozzolo, Messina. Lì si riunirono le squadre navali - 209 galee, mille 805 cannoni, 28 mila soldati, 12 mila e 900 marinai e 43 mila 500 uomini al remo - che nell’insieme formarono la flotta della Lega Santa la quale, il 24 agosto del 1571, tolse l’ancora per muovere, guidata da don Giovanni d’Austria, contro i turchi. Di questo e d’altro avremo tempo per discorrerne nel corso della crociera del Giornale, caro Caratozzolo, nell’agio che ci fornirà la «Fantasia», motonave, a quanto leggo e buon per noi, nuova di trinca. Ma tanto per scaldare un po’ i motori, vorrei ricordarle che quello che Papa Paolo VI restituì ai turchi non era il glorioso stendardo di Lepanto, ma l’inglorioso vessillo che Mehmet Alì Pascià issò sulla sua ammiraglia, la Sultana. Un drappo di pesante seta verde sul quale 28 mila e 900 costantinopolitane avevano ricamato, a filo d’oro zecchino, 28 mila e 900 volte il nome di Allah. Furono i veneziani ad arrembare la Sultana (Alì Pascià, già ferito da un’archibugiata, si tolse allora la vita), impossessandosi del vessillo che dopo la vittoria Sebastiano Venier trascinò, assicurato alla poppa della sua Capitana di Venezia, nelle acque del bacino di San Marco per successivamente farne omaggio a Pio V. La storia dello Stendardo di Lepanto - otto metri di damasco rosso, con bordatura d’oro e al centro l’immagine del Redentore crocifisso e la scritta In hoc signo vinces - è invece questa: dopo averlo benedetto in San Pietro, il Papa l’affidò a Marcantonio Colonna che a sua volta e proprio Messina, caro Caratozzolo, l’avrebbe consegnata a don Giovanni d'Austria perché fosse issato al pennone della Real, l’ammiraglia delle ammiraglie. Giunta la flotta nelle acque di Lepanto, presa posizione e recitata la preghiera del marinaio (questa la versione veneta: «Salve, Regina, rosa de spina, rosa d’amor, Madre del Signor. Fa che mi no mora e che no mora pecador, che no peca mortalmente e che no mora malamente»), avvenne che tutte le insegne delle 209 galee furono ammainate, lasciando che garrisse al vento solo lo stendardo di Pio V. Ora deve sapere, caro Caratozzolo, che prima di dirigerla alla volta di Messina, Marcantonio Colonna radunò le sue galee a Gaeta. Nel cui Duomo il «Prefetto e Capitano Generale» pontificio fece voto a Sant’Erasmo (patrono dei marinai) di fargli omaggio del sacro stendardo ove fosse tornato vincitore dalla missione. Mantenne, ovviamente, la parola e dopo averla fatta sfilare per le vie di Roma, Colonna portò la bandiera a Gaeta, deponendola sull’altare maggiore, ai piedi del santo. Conservata dapprima in un bauletto, nel Settecento fu distesa e incorniciata, così da poter essere esposto al pubblico.

Nel ’43 una bomba tedesca la danneggiò, anche se non irreparabilmente: restaurato nel dopoguerra, oggi lo Stendardo di Lepanto è conservato - e visibile al pubblico - nel museo diocesano della cittadina laziale. Che storie, eh, caro Catrozzolo? Il resto ce lo raccontiamo a bordo.

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