Distinto non mi fiderei di uno che dichiari di non amare i cani. E che, con provocatoria ostentazione scriva sempre Dio con la minuscola. Oltretutto, ancora fra i cani, distinguendo esclusivamente sulla base di opinabili criteri estetici. Non mi fiderei di un tipo che, dopo aver sottolineato, da umanista colto, lutilità di una cultura scientifica di base - irridendo il professorino che stoltamente la snobba - si ostini a parlare, assai poco scientificamente, di «razze» canine. E perseveri nellerrore - con imperdonabile pervicacia, poiché mostra daver consapevolezza che derrore si tratta - imputando ai cani, nientemeno che origini sciacallesche. E soprattutto, credetemi, non mi fiderei di uno che scriva «epperò»...
Epperò, non è necessario doversi fidare di uno scrittore... Uno scrittore deve interessarci, commuoverci, emozionarci, forse anche farci indignare o sognare, non ha il dovere di raccontarci la verità o di ispirare fiducia. Può far parte del suo mestiere, non contarcela giusta deliberatamente. Partiamo dal nome: Hans Tuzzi. Mitteleuropeo? Macché, sul risvolto di copertina del suo ultimo libro cè scritto che si tratta dello pseudonimo di Adriano Bon. Editore della milanese Sylvestre Bonnard, come sa già chi si occupi di libri. Proprio per le edizioni di casa esce Gli occhi di Rubino (pagg. 18, euro 12).
Perché firmarsi Tuzzi e rivelarsi subito dopo, al volgo e allinclito, Bon? Mah, forse perché Bon smentisce le asserzioni di Tuzzi. Il sottotitolo recita: «Di cani, di libri, di cani nei libri»: un'opera in cui, attraverso un sensibilissimo senso estetico, si mettono a nudo gli aspetti più profondi della psicologia canina.
Che il risultato sia figlio esclusivo della competenza e della passione del critico darte e del grande erudito - che pure ci regala pagine godibilissime con una miniera dinformazioni sulle vicende cinofile di artisti e letterati dogni tempo - non si può credere: cè lamore per il cane - se non lunico, uno fra i pochi a durare «per sempre» - a ispirare certi passi. E se un aristocratico distacco «costringe» lautore a fuggire comprensibilmente i vari «kennel club» o, in senso lato, gli altri padroni di cani, questo non va confuso con linaridente rifiuto di chi, per dirla con Konrad Lorenz, «si è ritirato in una soffitta come una vecchia zitella e vi rinsecchisce pian piano come un tubero sterile, che non ha mai portato frutti».
Epperò, Tuzzi-Bon ha una whippet, Dora e «tutte le mattine la porto in Bonnard» e «dormire, soprattutto di giorno, disteso come un bassorilievo sepolcrale sulla chaise-longue, con Dora a sua volta allungata sul mio ventre o acciambellata sulle mie gambe è forse loccupazione che attualmente preferisco...».
Epperò, gli occhi di Rubino, che danno il titolo al libro, sono quelli mantovani del celebre bracco immortalato da Mantegna nella Camera degli Sposi, e vengono descritti come «bravi, pazienti, ingenui e indifesi occhi di cane». Davvero non le parole di un cinofobo. Del pari, quelle a commento del quadro Il nano del cardinale de Granville di Anthonis Moor, che illustra la copertina: «lo sguardo del cane è umido di sentimento, gli occhi delluomo sono due spilli puntuti».
Epperò, ed anzi soprattutto, Hans Tuzzi confessa di «non avvertire incompatibilità» con alcune razze in particolare: tra queste i terrier e i bassotti tedeschi, «nelle due varianti, a pelo corto e a pelo duro». Be, il fatto che non sia «incompatibile» col mio fox Willy e col mio bassotto Hybris-Silvio, forse, e sottolineo forse, lo rende «non incompatibile» anche con me.
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