Quella solitudine maestra per tornare a vivere davvero

Nel suo libro, Tramonte propone una via alternativa a quella dell'uomo contemporaneo. Che vale la pena percorrere

Quella solitudine maestra per tornare a vivere davvero
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Ci sono due cose che l’uomo contemporaneo ha perso: la solitudine e il silenzio. La prima è stata soppiantata dai social, che ci avvicinano ai lontani e ci allontanano dai vicini. Il secondo, invece, è stato sovrastato dal caos di vite spese in fretta e senza un perché. Corriamo al lavoro, per il quale spendiamo ore e ore delle nostre esistenze. Perdiamo la nostra forma, non solo fisica, ma anche filosofica, ovvero ciò che ci caratterizza, che ci fa essere esattamente ciò che siamo. Noi e nessun altro. E poi proviamo a rifugiarci in palestra, ma senza chiederci troppi sacrifici, per perdere il grasso accumulato e rimetterci in forma per la prova costume (e rigorosamente solo per quella) perché, diciamocelo, tutto il resto dell’anno può andare a farsi benedire. Perché apparire è molto più importante di essere. O si vive così (e c’è da impazzire) oppure si sceglie La solitudine maestra, dal titolo di un bel libro di Ottavio Tramonte. Certo, richiede coraggio perché essere soli costa. Ci sei solo tu. Non puoi scaricare le colpe su qualcun altro. Se sbagli è colpa tua. Se riesci idem. È solo se ti fermi, se stai solo e rifletti su chi sei, che comprendi davvero qual è il tuo nome. E per cosa sei al mondo.

Tramonte - ieri ex atleta di judo e oggi uno dei direttori tecnici della Naga Kuning Institute, insegnante di Pukulan, un sistema di Pentjak Silat, e Coach di WTA Functional Training nella sua Matjan Academy - parte dalle arti marziali orientali per portarci a riscoprire l’istinto guerriero che è dentro di noi. Quella sana aggressività che, come recita l’etimologia (ad - gredior, andare avanti), serve a spingerci sempre oltre. A riconoscere che oggi abbiamo una certa forma e che, se lo vorremo, domani potremo migliorarla. Senza cedere a falsi miti, come quello di Achille. Forte, apparentemente il più forte. Ma con un grande punto debole, come tutti sanno: il suo tallone. Il suo limite. Sul quale non poteva lavorare, perché la sua era una forza che gli era stata concessa dagli dei. Era il suo destino, nel bene e nel male. Che era così. Punto. Non poteva essere in alcun modo modificato. Il contrario di quello che può, anzi deve essere davvero, il limite: qualcosa che va spostato sempre un po’ oltre. Oggi posso fare X; domani X + 1. Come spiega Tramonte, ricordando un episodio legato a Bruce Lee, del quale tutti ammiravano il fisico senza sapere di alcune sue importanti limitazioni, appunto: “La gamba destra più corta di quella sinistra di quasi tre centimetri. Scoprii che era invece avvantaggiato in tutta una serie di calci, poiché il passo irregolare gli garantiva uno slancio maggiore. Inoltre soffriva di miopia, il che significava che aveva difficoltà a scorgere l’avversario che non si trovava a distanza ravvicinata”. Poteva abbattersi dunque, Bruce Lee. Ma non l’ha fatto. Anzi: si è affidato “ad un allenamento molto scrupoloso. Era così bravo perché tale si era reso. Oltre ad allenarsi egli cercava modi per rendere la sua pratica ancora più efficace”.

È una via, quella del guerriero. Che poi è la vita di ogni uomo.

Che non si interrompe mai perché ogni giorno ha la sua lotta. I suoi demoni, talvolta in carne ed ossa molto più spesso spirituali, da affrontare e sconfiggere. Ma bisogna farlo in silenzio. E, soprattutto, soli. Perché nessun altro combatterà al posto tuo.

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