Politica

Strategia della minaccia

I contendenti sembrano fare a gara per alzare ulteriormente la temperatura della crisi fra Iran e Stati Uniti, gettando un’ombra sui tentativi in corso da parte di diverse diplomazie per giungere, se non a una soluzione, a un raffreddamento. Condoleezza Rice ha ribadito ieri l’urgenza di una approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di una risoluzione di condanna di Teheran in una forma che esplicitamente o implicitamente possa essere interpretata come autorizzazione ad un’azione militare, sullo sfondo della riesumazione da parte di Bush della prospettiva dell’uso di armi nucleari per impedire all’Iran di procurarsi armi nucleari. E da Teheran il presidente degli ayatollah, dopo aver respinto ad una ad una tutte le formule di compromesso, ha risfoderato gli insulti e le minacce a Israele che da sole basterebbero a indurire la posizione degli Stati Uniti e a rendere più prossimo un conflitto militare. Questa volta lo Stato ebraico non dovrebbe essere «cancellato dalla carta geografica» (che potrebbe ancora essere interpretato, da esegeti improbabilmente benevoli, come riferentesi al nome di uno Stato e non alla sua sussistenza materiale) ma addirittura «estirpato come un albero marcio»: un paragone che costituisce al di là di ogni dubbio, stavolta, una minaccia diretta alla popolazione civile. Per sorprendente che sia stato l’attacco precedente di Ahmadinejad allo Stato ebraico, esso conteneva elementi di dubbio che dalla formula odierna scompaiono. È come se il presidente iraniano facesse deliberatamente di tutto per spingere l’America ad attaccarlo. Una strategia inspiegabile con i canoni della diplomazia tradizionale o anche dei soli rapporti internazionali in sé per cui si possono avanzare tutt’al più due ipotesi: la prima di far «perdere la faccia» a Bush se non reagirà pesantemente, la seconda, se gli Stati Uniti attaccheranno, di presentare sé e l’Iran intero come «martire» della causa islamica, forse con il disegno di riconquistare agli sciiti il primato nella sfida all’America che essi ebbero con la caduta dello Scià e il regime di Khomeini e che è passato negli ultimi anni, con l’emergere di Bin Laden, in mani sunnite. Si tratterebbe in questo caso di una strategia suicida, di un uomo che usa il suo popolo come kamikaze. Per questo ancora si stenta a crederci e si preferisce pensare a queste parole come a parte di un bluff più ampio e generico. L’Iran si comporta infatti esattamente nel modo opposto che ci si potrebbe aspettare da un Paese che si sta dotando di armi proibite e che dovrebbe farlo in segreto, sempre negando se accusato. È il comportamento che fu attribuito, ora sappiamo a torto, da Bush a Saddam Hussein. È più probabile a questo punto che Teheran segua il modello della Corea del Nord nel fare una scommessa ad altissimo rischio. La logica di Pyongyang era: Bush ha attaccato l’Irak che le armi di distruzione di massa non le aveva e si è invece astenuto da azioni militari contro la Corea del Nord perché quest’ultima ne era dotata. Meglio dunque saltare il più in fretta possibile nel club nucleare e acquisirsi così un deterrente militare e politico, prevenendo la minaccia dell’America di imporre un «cambiamento di regime».
Un tipo di sfida dal successo particolarmente arduo quando si ha a che fare con un uomo come Bush, l’ultimo disposto a tornare su una decisione presa dando l’impressione di essere impaurito. Lo si vede anche adesso che si levano sempre più voci in Congresso nei media e soprattutto fra gli esperti per dissuadere la Casa Bianca da un’azione militare sottolineandone i rischi di ogni genere. Se ne è fatto portavoce, per ultimo finora, anche Richard Armitage, diplomatico influente nell’amministrazione Reagan e vicesegretario di Stato con Bush padre e che è intervenuto pubblicamente per consigliare «un po’ di pazienza con Teheran». Lo consentirebbe lo stadio comunque rudimentale dell’armamento nucleare iraniano, che anche i più pessimisti prevedono non possa essere operativo prima di quattro o cinque anni. Ci sarebbe ancora dunque tempo per le pressioni, anche se non ci saranno trattative, per convincere l’Onu a sanzioni gradualmente serrate, in particolare attraverso l’attivissimo canale diplomatico della Cina. Ma si sa che il Pentagono sta esaminando opzioni militari che si possono condurre nell’immediato, dai bombardamenti agli impianti nucleari iraniani a una azione di sovversione politica del regime. Agli esperti americani che ammoniscono che quest’ultimo uscirebbe invece rafforzato da un attacco militare perché il gesto riunirebbe nel risentimento anti Usa anche gli oppositori l’amministrazione non risponde direttamente se non di essere pronta per ogni eventualità. In presenza di mediatori come la Russia e la Cina e dell’opposizione dichiarata ad azioni belliche anche da parte del più fedele alleato militare, la Gran Bretagna, Bush sembra voler andare avanti sulla sua strada, usando «tutti i mezzi necessari» che possono includere testate nucleari «tattiche» per arrivare a distruggere i laboratori sotterranei. Il presidente dà a tratti l’impressione di avere fretta e c’è chi fa derivare questo atteggiamento da una sua convinzione: di essere l’unico leader di Washington disposto a correre il rischio di un conflitto che potrebbe estendersi a vaste aree del pianeta. Nessun suo successore lo farebbe, un futuro Congresso democratico lo impedirebbe.

Dunque oggi o mai.

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