Gli Strokes, un brodino giovanilistico e furbetto

Niente di nuovo: anni fa tentarono di convincerci che gli Oasis, modesto gruppo inglese, erano nientemeno i nuovi Beatles, più avanti si provò a spacciare i nostri Lùnapop per gli eredi dei Queen, ora ecco gli americani Strokes, al loro terzo album, prenotarsi per il titolo di novelli Velvet Underground, forse puntando sul fatto che il timbro vocale del cantante rammenta all’incirca quello di Lou Reed. Vietato scandalizzarsi: le vie del marketing sono infinite come quelle della Provvidenza, solo più stolide e fraudolente. E dunque appare tempo perso, cercare qualche traccia del sulfureo, esasperato, digrignante furore dei Velvet in questo brodino giovanilistico e furbetto, che un critico non embedded definiva «un karaoke finto cool e pseudo arty, un mix liofilizzato di Television, Lou Reed, Blondie con un po’ di primo Eno per dirsi cresciuti».

Anglicismi a parte, l’analisi non fa una grinza: l’album è un coagulo di finte rabbie e finti esotismi (Vision of division), sberleffi da cabaret e cascami post punk. Un manifestino virtuale, perfettino e privo d’eccitazione, dotato della stessa densità e dello stesso fervore dei fuochi fatui: perfetto per l’èra di Internet.

The Strokes First impressions of heart (Bmg)

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