«C’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra», ha dichiarato ieri il ministro israeliano della difesa Ehud Barak citando il Kohelet, aggiungendo «e questo è il tempo della guerra». Una guerra che l’intero Paese vuole per liberarsi dall’incubo (ma anche dalla vergogna per la sovranità dello Stato ebraico) dei missili di Hamas. Che pronostici si possono fare?
Nell’immediato e sul piano militare molto dipende da due fatti che al momento sfuggono agli osservatori.
1) La profondità dell’attacco israeliano. Difficilmente potrà limitarsi ad una risposta missilistica perché questa non piegherebbe ma rinvigorirebbe l’immagine di Hamas che pur di apparire irriducibile - e dunque vittorioso su Israele - non avrebbe scrupoli a sacrificare i suoi civili. Se verranno impiegate truppe, queste non rioccuperanno Gaza ma probabilmente (forse col tacito assenso dell’Egitto) riprenderanno il controllo di quella striscia di terreno larga due chilometri e lunga una ventina a ridosso della frontiera egiziana, sotto la quale sono stati scavati oltre 600 tunnel per alimentare Hamas con armi e contrabbando.
2) Gli Hezbollah interverranno nel conflitto? Se lo faranno, sparando missili sulla testa del corpo internazionale di separazione fra Israele e il Libano, lo scontro non solo finirà per allargarsi pericolosamente ma la risposta israeliana coinvolgerà anche il Libano, considerato oggi da Gerusalemme partner, non vittima degli Hezbollah. E questo senza fermarsi nemmeno alla distruzione dei centri abitati, dentro i quali gli Hezbollah hanno nascosto migliaia di missili, diventando un paravento per la strategia di Teheran contro Israele. Se Hezbollah non si inserirà nel conflitto questo si trasformerà per lui, per la Siria e per l’Iran in un duro colpo di prestigio e di credibilità.
3) Se sotto pressione internazionale o delle bombe si arriverà rapidamente ad un cessate il fuoco, difficilmente Israele potrà accettarlo senza due condizioni: un controllo reale da parte di Hamas o di una qualche autorità internazionale sul lancio dei missili contro Israele; la liberazione del caporale Shalit, con o senza scambio di prigionieri, ormai diventata un simbolo politico per le parti in conflitto.
4) Da come questa operazione andrà a finire dipenderà l’esito delle elezioni israeliane del 10 febbraio prossimo e di quelle per il presidente palestinese il 9 gennaio. Un successo potrebbe rappresentare «l’esame di riparazione» politico del premier Ehud Olmert, dopo le colpe che gli sono state addossate per la condotta, tre anni fa, della seconda guerra del Libano.
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