«A Teheran un golpe militare guidato dal figlio di Khamenei»

Mojtaba, il secondogenito della guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, è l’eminenza grigia dietro la dura repressione delle proteste di Teheran. Il «delfino» del grande ayatollah Khamenei è stato addirittura accusato di aver ordito «un golpe militare», che ha tenuto in piedi il regime dopo le contestate elezioni presidenziali del 12 giugno. Ieri il giornale arabo al Sharq al Awsat scriveva che Mehdi Karroubi, uno dei candidati alla presidenza, ha indirizzato alla suprema guida una lettera di fuoco. «Mojtaba, è il responsabile del colpo di stato militare», avrebbe scritto Karroubi. Anche il potente ayatollah Hashimi Rafsanjani punterebbe il dito contro il figlio di Khamenei. Il capo della fazione pragmatica dei conservatori, avrebbe «espresso ai vertici del potere la propria rabbia sulle sue interferenze. Mojtaba, qui a fianco in una delle rare sue foto, è il rappresentante più giovane ed estremista dell’ala radicale incarnata dal padre e da Ahmadinejad. Austero e ombroso, appare raramente in pubblico ed è cresciuto attorniato da guardie del corpo e membri dei servizi di sicurezza. Da tempo è l’unica via di accesso al beit-i-rahbari, la guida suprema dell’Iran. Gestisce la segreteria di Khamenei e anche gli inviti nella residenza del leader. Il padre, che ha 70 anni, starebbe lavorando per farsi succedere da Mojtaba. Gran parte del clero iraniano ed in particolare l’Assemblea degli esperti, presieduta da Rafsanjani, non ne vogliono sapere. Il secondogenito non ha i titoli religiosi per diventare guida suprema. Non li aveva neppure il padre quando è stato nominato successore del grande ayatollah Khomeini.
Mojtaba ha aiutato Ahmadinejad fin dalla sua prima elezione a presidente nel 2005. Con lo scoppio della protesta, contro i brogli denunciati dallo sfidante Mir Hossein Musavi nel voto del 12 giugno, il figlio di Khamenei ha preso in pugno la situazione. Secondo fonti vicine ai servizi di sicurezza iraniani, Mojtaba avrebbe preso il controllo dei basiji. I giovani «volontari della rivoluzione», organizzati come forza paramilitare, sono stati scatenati contro le manifestazioni di piazza. Un medico iraniano ha denunciato al quotidiano inglese The Guardian che proprio i basiji hanno messo in piedi un’operazione di «insabbiamento» sul numero di vittime negli scontri. «Solo nell’ospedale in cui lavoravo, nella prima settimana di proteste, abbiamo registrato la morte di 38 dimostranti, in gran parte uccisi da colpi di arma da fuoco», scrive il medico sul Guardian. «Un collega mi ha riferito che nel suo ospedale ci sono state 36 persone ricoverate per ferite da armi da fuoco e 10 morti», racconta ancora. I decessi, inoltre, non sarebbero stati registrati solo a Teheran, ma anche a Isfahan e Shiraz, «ed altre città».
La repressione ha lasciato un segno indelebile anche in campo conservatore.

Contro i Khamenei ed Ahmadinejad si starebbero schierando il presidente del parlamento, Ali Larijani, il sindaco di Teheran, Mohammad Baqer Qalibaf, l’ex candidato presidenziale Mohsen Rezai. Oltre ad alti ufficiali dei Pasdaran come Ali Jafari, comandante della Guardia Rivoluzionaria e il generale Ali Fazli, capo dei Guardiani della Rivoluzione a Teheran.
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