Il testamento spirituale di uno sconfitto

Lettere dall’Italia perduta (Sellerio) è il titolo del volume nel quale Giovanni Belardelli ha raccolto le lettere indirizzate da Gioacchino Volpe ai familiari (alla moglie Elisa Serpieri e al figlio maggiore Giovanni) tra il giugno ’44 e l’ottobre ’45.
Di formazione nazionalista, nel fascismo Volpe aveva visto lo strumento per fare dell’Italia una potenza militare e industriale. Aveva perciò collaborato con gli apparati culturali del regime, al quale resterà fedele sino al ’43. Ma dopo l’8 settembre si rifiutò di aderire alla Rsi, senza per questo riconoscersi, a dispetto dei suoi sentimenti monarchici, con il Regno del Sud. Si era perciò ritirato nella sua proprietà di Santarcangelo di Romagna, situata a ridosso della Linea Gotica e dunque al cuore dello scontro tra tedeschi e Alleati. Ed è da questo precario rifugio - tra allarmi aerei, scarsezze materiali e ufficiali tedeschi che scorrazzano per casa - che nascono le sue amare riflessioni sui drammatici eventi in corso.
Il tema che l’ossessiona è la scomparsa, a causa della guerra e dunque del fascismo che l’aveva voluta, dell’idea di Italia che era stata sua e di un’intera generazione: un’Italia non più asservita e divisa in fazioni, ma «libera nazione», forte economicamente e protagonista sulla scena internazionale. Diventeremo - scrive Volpe con sgomento - «un grosso Portogallo o una grossa Grecia», un popolo di albergatori e contadini nuovamente costretti a emigrare. Mentre scrive ai familiari, sta completando la stesura dell’Italia moderna. Ma procede con grandi difficoltà, perché, scrive in preda al pessimismo, ormai «quasi manca l’oggetto del lavoro, manca l’Italia».
Commenta senza rancore la sua cacciata dall’università, che non imputa a ragioni politiche, ma principalmente a trame accademiche: «Seguiterò a lavorare da libero cittadino. Cercherò di farli vergognare di quel che hanno fatto». In più occasioni, legge la guerra con l’ottica della tradizionale lotta per la potenza, non nello spirito dello scontro ideologico e di civiltà. E non nasconde la sua avversione nei confronti dell’alleato tedesco. Sul fascismo appare reticente o indulgente. Lo rimprovera per i suoi eccessi retorici. A Mussolini imputa il velleitarismo tipico dell’agitatore di provincia, opponendogli il realismo dei politici dell’Italia liberale. A più riprese manifesta una struggente nostalgia per il destino coloniale dell’Italia e l’ormai perduto impero d’Africa. Arriva a confessare di non essersi mai sentito così «colonialista, africanista».
Tornato a Roma, a conflitto pressoché terminato, segue con sospetto l’evoluzione politica della nuova Italia: teme la furia epurativa dei vincitori e non si fida dei partiti che già battagliano per dividersi il potere. Guarda perciò con qualche simpatia al movimento qualunquista, pur dichiarando tutta la sua estraneità alla politica. Nel complesso, il suo è l’atteggiamento di un uomo isolato, estraneo al proprio tempo e di lì a poco anche allo spirito della Repubblica. Più che un nostalgico, uno sconfitto, che avendo giocato la sua grande partita sa di averla persa irrimediabilmente. Ma ai suoi occhi rimane pur sempre una speranza di riscatto, che affida alle nuove generazioni, alle quali ricorda che «nessun popolo potrà mai vivere senza un qualche mito o sogno di grandezza» o senza possedere il «senso dell’avvenire».
Agli intellettuali non si dovrebbe chiedere troppo, specie quando si esprimono in forma privata. È possibile che lo sguardo dello storico risulti leggermente appannato in queste lettere, tra l’altro molto belle dal punto di vista letterario. Ma andrebbero lette non come un testo di storia, ma alla stregua di un testamento spirituale.

Pervase da un tono malinconico, vi si trovano i tormenti religiosi di un uomo sensibile, i delicati pensieri di un marito innamorato, le ansie di un padre premuroso, gli scrupoli morali di un cittadino onesto: tutto ciò che permette agli uomini di sopravvivere alle grandi tragedie collettive.

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