A Torino bisogna stare attenti al Gatto nero

Paolo Marchi

nostro inviato a Torino

È possibile uscire arrabbiati da un ristorante dove si è mangiato molto bene? Sì, se sei convinto che il conto non sia lo specchio fedele e sincero di quello che avevi ordinato e di quello che ti è stato portato. Al Gatto Nero, storica insegna toscana di Torino, una prima sede aperta nel 1927 e l’attuale trentun anni dopo, ci sono arrivato con un collega di Genova una tarda sera olimpica per togliermi la voglia di carne, che purtroppo ancora mi trascino.
In due abbiamo ordinato carciofi fritti in pastella (discreti), lui una pasta (buona) e io un eccezionale baccalà mantecato con patate, un insieme su cui mi sono prodotto in una generosa grattata di pepe e che avrei mangiato (il baccalà) a oltranza. L’attesa per la Chateaubriand di filetto alle bacche di ginepro è stata riempita da un omaggio della casa (omaggio temo solo all’apparenza vista la tostata finale), un assaggio di ribollita, buona e densa pur se tendente al salato.
La prima vera delusione con il piatto forte. Il buono della Chateaubriand è la sostanza carnosa sotto ai denti, il filetto interno cotto esternamente che racchiude un interno rimasto gradevolmente rosa. Il suo bello, almeno così me lo ricordavo, è il pezzo portato a tavola e scaloppato sotto gli occhi dei clienti dal cameriere. Di tutto questo lavoro che uno si aspetta in sala, non vi è stata traccia: due fette e mezzo a testa già sistemate nel piatto, ottime ma mi aspettavo tutt’altra coreografia e anche peso nel piatto in rapporto al conto finale.
Prima di commentarlo, merita applausi il gelato di pistacchi di Bronte con olio di semi di zucca, una proposta che non ci azzecca nulla con la carta del Gatto Nero che è un inno a un passato che non tramonta mai perché replicato con bravura. È un’idea nata grazie a prodotti scovati all’ultimo Salone del Gusto, ben vengano proposte nuove e ben venga anche un conto dettagliato e chiaro perché, considerata anche una bottiglia di vino a 24 euro, un totale in due di 168 ha stupito sia il sottoscritto sia chi mi accompagnava. Il dubbio? Che la Chateaubriand per due persone a 40 euro sia stata fatta in realtà pagare 80, quaranta a testa per due etti abbondanti di carne, certo non un manzo intero, quando un chilo di fiorentina era in carta a 52. E, secondo sospetto, che la ribollita non fosse poi così omaggiata dalla casa.

Fessi in ogni modo noi che abbiamo pagato senza chiedere spiegazioni, ma era tardi ed entrambi fusi da stanchezza olimpica.
E su tutto una domanda: ma perché certi ristoratori devono comportarsi così?
E-mail: paolo.marchi@ilgiornale.it

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