Torna Prodi lo smemorato: «Nostalgia per tasse e oratori» L’ex premier: «Per formare nuovi politici si torni a parrocchie e circoli» I giovani dirigenti? «Il vuoto». La vendetta? Far perdere il Pd a Bologna

Era meglio (o peggio, se preferite) da premier o da prof? Difficile dirlo, specie guardando i suoi epigoni, ma di certo lui ce la mette tutta per sorprendere e stupire. Di Romano Prodi si parla, che abbandonata la politica attiva - così dice - e lasciato il Partito democratico del quale era fondatore e padre unico nelle «capaci mani» di Veltroni e Franceschini, è tornato all’insegnamento. Invece di godersi la pensione nei giardini di Bologna o accontentarsi del prestigioso quanto velleitario incarico ricevuto dall’Onu per portar pace in Africa, gira il mondo a tener lezioni in università grandi e piccole. Si fa presentare come un «tecnico», più precisamente un economista, «prestato alla politica». Come dire che i due passaggi a Palazzo Chigi e la lunga trasferta a Bruxelles sono state semplici (o complicate, se preferite) parentesi, pause sabbatiche per riposar la mente ed esercitare il braccio.
Dunque Prodi tiene conferenze ove spiega ai suoi colleghi e agli studenti d’ogni lingua i problemi della politica e della società italiana. E sapete che cosa ha raccontato nell’ultima lecture per la quale è stato invitato ad Oxford nei giorni appena scorsi? Che da noi non si forma più classe dirigente da quando le parrocchie hanno oscurato gli oratori e il Pci ha chiuso cellule e sezioni.
Nostalgia degli anni giovanili, voglia di prima Repubblica, acrimonia (o scetticismo fondato, se preferite) per i «giovani» che ora reggono timone e bussola del centrosinistra? Anche quando istruisce all’università di Puebla dei gesuiti messicani, o a quella di Nostra Signora del Buon Consiglio a Tirana, il premier in pensione e prof rigenerato evita accuratamente ogni giudizio diretto e personale; ed anche questa volta non ha mai nominato il nome di Berlusconi o quello di D’Alema, men che mai Veltroni e Franceschini, nemmeno quello di Fini o Bossi. Fa teoria Prodi, analizza il mondo, come il cortile di casa, dall’alto dei cieli. E probabilmente ce l’aveva con tutti, non solo coi suoi, quando spiegava che «il nostro Paese ha diverse emergenze, e fra queste una è evidente: non sappiamo più selezionare una valida classe dirigente». Ha fatto una pausa, e poi ai professori e agli studenti (quasi tutti connazionali) convenuti alla Taylor Institution ha consegnato la sua riflessione: «Pensiamola come vogliamo, però parrocchie e cellule erano una scuola di formazione severa, attenta, efficace. Oggi, quando ascolto un giovane che si presenta con la formula magica del “votatemi perché sono estraneo a tutto”, rimango molto perplesso. È il vuoto».
Ma sì, aridatece la scuola quadri delle Frattocchie coi viaggi studio a Praga e i ritiri spirituali al convento di Santa Dorotea coi campeggi della Domus Mariae, è questo il nuovo che avanza e che vagheggia Prodi. Però una considerazione sorge spontanea, utile anche a sciogliere l’enigma iniziale, pur se lascia insinuare il sospetto che predica bene ma razzola male. Scusate, ma qual è la «classe dirigente» che ha formato e selezionato Prodi personalmente quando il potere, pro tempore s’intende, stava nelle sue mani? L’onorevole Sandra Zampa non risulta diplomata alle Frattocchie né l’onorevole Giulio Santagata figura tra gli ex allievi di Camaldoli. Sono questi i prodiani - a parte Arturo Parisi che più di Bologna ha frequentato la parrocchia sassarese di San Giuseppe, come Cossiga - allevati dal prof?
Gli è che a Prodi piace parlare e scrivere. Sin troppo. Ricordate quando era premier e scriveva lettere a tutti, anche a Fiorello sull’immondizia di Napoli? Ora è entrato nel mashed potato circuit come Bush e Clinton: il «giro del purè», per via della parca cena offerta all’illustre ospite, dopo la conferenza, nella mensa del college. Sempre meglio di come andrà a Veltroni senza dubbio, che in giro per il mondo se lo filano in pochi o punto. Dopo la morte di Ferrari e Pavarotti, di italiani conosciuti nelle capitali ne son rimasti tre: Berlusconi, la Pausini e lui. Certo, i libri di Prodi vendono e son pagati una miseria, a confronto delle memorie di Clinton, ma anche le sue lezioni son pagate mica male: 10mila euro ognuna, che il prof devolve generosamente per sostentare la Fondazione dedicata alla Collaborazione tra i Popoli. Ed è un globetrotter della lecture: prima di Oxford è passato ad insegnare in Svizzera, fa concorrenza a Cossiga nel collezionare lauree ad honorem (lui ne ha già una quarantina), lo aspettano il 18 marzo al Palazzo di Vetro per presentare il suo piano di peacekeeping in Africa ma prima deve passare all’Università di Barcellona per ritirare un importante riconoscimento accademico.
Insegna, Prodi. Non s’occupa più della politica di casa. Però agli eredi che lo han costretto a tornare in cattedra, ha lasciato un frutto avvelenato più micidiale del curaro. Li ha convinti a candidare Flavio Delbono, suo fidato ex allievo, quale successore di Cofferati a sindaco di Bologna.

E ancora ieri, sulle pagine di cronaca locali, ha ribadito che il suo «appoggio politico è rivolto con chiarezza e senza riserve a Flavio Delbono». Come se fosse un mistero, che anche i suoi amici più sinceri a quel candidato preferiscono Guazzaloca. E Prodi avrà la sua vendetta più dolce: il Pd perderà anche Bologna.

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