La tragedia di una donna reclusa per follia

«Lola che dilati la camicia» all’Elfo fino al 19 giugno. Regia di Baliani, con Cristina Crippa

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Miriam D’Ambrosio

«Stavo lavorando con Marco Baliani sul Peer Gynt di Ibsen quando ci venne in mente di fare un lavoro sull’identità, sulla sua ricerca - racconta Cristina Crippa - e io pensai alle lettere di Adalgisa Conti, ritrovate dal giornalista Luciano Della Mea a metà degli anni Settanta».
Dall’autobiografia di Adalgisa, chiusa in manicomio per volontà del marito all’età di 26 anni nel 1914, è nato lo spettacolo Lola che dilati la camicia, in scena al teatro dell’Elfo fino al 19 giugno (regia di Baliani, in scena Cristina Crippa e Patricia Savastano). «Storie devastanti come questa ce ne sono state parecchie e scoprirle è vivere un’esperienza forte - continua - il meccanismo della reclusione raccontato da lei è terribile. Adalgisa diventa pazza. Le sue lettere sono indirizzate alla mamma, al suocero, al dottore. Sono richieste d’aiuto per uscire da lì. Lei obbedisce». Della Mea custodiva le fotocopie delle lettere di Adalgisa Conti, scoperte nel 1975 nell’ospedale di Arezzo, quando Pirella, collaboratore di Basaglia, affidò a lui l’incarico di vedere le cartelle cliniche e raccogliere materiale nei manicomi italiani. «Questa donna ha riacquistato dignità negli ultimi tempi della sua vita lunga. L’hanno trovata che aveva 92 anni e ora le viene restituita voce». È come se Adalgisa avesse aspettato settanta anni per raccontare, testimonianza viva di una delle violenze più atroci. Come se avesse detto: «Non muoio finché non si conosce la verità». E ancora: «Adalgisa era una donna vivace, reduce da un’infanzia dura con tanti fratelli - dice Cristina - il privilegio di saper scrivere gli viene dalla madre maestra. Poi arriva il sogno, l’innamoramento, il matrimonio deludente, la voglia e la capacità di avere autonomia rispetto al marito, di esprimersi sessualmente, di manifestare la sua insoddisfazione. Non nascono figli da questo matrimonio, figli su cui riversare amore e per questo lei non può rassegnarsi alla perdita di desiderio, è incapace di rassegnazione. Diventa preda di una forte depressione e il marito che aveva storie con altre donne, la fa internare». Le lettere indirizzate a lui, al suocero e al medico sono strazianti. Lei cerca di assumersi delle colpe per dare un senso al castigo, di capire e far capire che è guarita. Sulla scena non ci sono uomini: Cristina è affiancata da un’altra donna, l’infermiera, una presenza severa che contiene gli eccessi di lei e equivale a «un servo di scena, un suggeritore, unico referente fisico e affettivo, complice del racconto - spiega l’attrice - il dottore è solo una luce dall’esterno, non esiste».
Il linguaggio è quello di lei, mantenuto integro da Baliani, Crippa e Alessandra Ghiglione che hanno lavorato sulla drammaturgia. «È stato un lavoro sull’improvvisazione e sulla gestualità», una storia di segregazione e annullamento di un corpo di donna che vuole vivere. La scena si fa simbolo, con un telo che è scenografia e costume. «Il telo è un lenzuolo di cui anche noi siamo rivestite - conclude Cristina - e il lenzuolo è corredo nuziale, sudario, alcova, calore, camicia di forza.

È un telo macchiato, tagliato e ricucito», come i giorni di Adalgisa, offesi. E, d’altra parte, «Gentilissimo signor dottore, questa è la mia vita», emersa dal silenzio grazie al teatro e al libro edito da Jaca Book nella collana «I senza storia», completo di lettere, copione e foto di scena.

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