Alberto Cantù
da Milano
Lo spazio scenico è vuoto, immenso e neutro così da accentuare lisolamento dei personaggi, la loro straniata desolazione, i sensi di colpa, «distanze» incolmabili. È Káta Kabanovà anno 1921, approdata ieri per la prima volta (sì: la prima) con meritato successo alla Scala. Offerta nel mirabile allestimento della De Vlaamse Opera di Anversa, regista Robert Carsen.
Una regia tutta sulla musica (e in Janácek la musica è lazione) che parte da un dato di realtà - Kalinov piccolo centro di mercanti affacciato sul Volga - per trasfigurarlo. Il palcoscenico è così uno specchio dacqua che simboleggia il bilico costante sul baratro e la spinta ineluttabile della protagonista verso labisso-annientamento.
La scena, dunque, si direbbe congegnata per un teatro a gradoni. Viceversa in Scala solo dalla galleria o da un palco si vede con chiarezza lacquatico palcoscenico dove ogni danzatrice - la bianca Káta «moltiplicata» per il corpo di ballo - giace su tavole di legno-tombe o croci (Ouverture) oppure si contorce in un disperato naufragare durante luragano.
Ciò che conta realmente, però, è il fondale, neutro anchesso (e visibile al meglio pure in platea) che rispecchia un baluginare dacqua e di corpi, di luci e di simboli. Lì, su una striscia di terra tra il fiume, vedremo compiersi il duetto damore di Káta e Boris, cuore dellopera. Su quella parete, cerchi concentrici dacqua cattureranno la donna che saffoga.
Meraviglia troppo poco frequentata lopera di Janácek, meraviglia la regia di un Carsen al top (scene e costumi di Patrick Kinmonth; luci abbacinanti o ad effetto silhouette dello stesso regista e di Peter Van Praert), di grande forza e profondità il testo messo in musica: Luragano di Ostrovskij che Vincent Cervinka tradusse in ceco e Franco Pulcini ha reso (viva il display) in un italiano di grande aderenza e intensità.
Ancora. Allestimento duna «pulizia» assoluta (anche i costumi: abiti anni Trenta a tinte smorte)e duna stilizzazione tale che ai cantanti-attori è richiesto un impegno assoluto nellincarnare personaggi e vicenda, emozioni e deliri che a loro soltanto competono. Quelli che lorchestra onnipresente di Janácek «racconta» e sottolinea senza sosta. Unorchestra che John Eliot Gardiner, al suo felice debutto scaligero, rende ancora più sinfonica, protagonistica e «ondosa» di quanto è già. Con lo stato di grazia dei complessi scaligeri, ecco così il mirabile fluire sonoro: un canto terso, novecentesco eppure coinvolgente, distillato ma netto.
Ci sono però vari problemi. Un po lorchestra che finisce per prevaricare, in termini di decibel e di emozione, il palcoscenico. Un po la storia dellacqua «ti vedo e non ti vedo». Un po il cast, di tutto rispetto ma senza grandi voci e grandi attori. Morale. Lallestimento funziona a scartamento ridotto.
Esempi. Lunica a «riempire» attorialmente la scena è la terribile, virulenta suocera di Káta, nera dentro e fuori ovvero sepolcro imbiancato: una Judith Forst la cui voce, però, è rotta e precaria. Solo discreto vocalmente e assai «tenore» nel porsi è il Boris di Peter Straka, luomo per cui Káta prova un sentimento finalmente corrisposto e le sofferenze di chi ha conosciuto una volta soltanto lamore prima di morire in solitudine. Più Mélisande (ideale) che Káta ci sembra la delicatamente spaesata Janice Watson: pianissimo squisiti, acuti limpidi, mezze voci sognanti ma «peso specifico» limitato.
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