Non per difendere il cinema italiano, spesso «giovanilistico», distratto e stilisticamente loffio, ma la faccenda delle «tre camere e cucina» non sta più in piedi. Coniata anni fa da Gian Piero Brunetta e appena rilanciata da Marianna Rizzini sul Foglio, lespressione indicava il presunto ripiegarsi domestico dei nostri registi, in una vena intimistica e autoreferenziale poco incline a tradurre in epica un sussulto della coscienza collettiva. Daccordo, non si può esser sempre gentili, per citare il Brecht ammonitorio di A coloro che verranno, ma ha davvero senso dare la croce addosso ai cineasti italiani perché non hanno pensato a un film come Munich? Già a Spielberg, che è Spielberg, è venuto piuttosto maluccio, figurarsi uno dei nostri alle prese con una vicenda che ripercorre il blitz di Settembre Nero alle Olimpiadi del 1972 per raccontare la «vendetta» messa in atto dal Mossad nei mesi successivi.
Certe cose meglio farle girare agli americani, agli inglesi, o anche ai francesi, che con Storie di spie realizzarono il film forse più interessante sul modus operandi dei servizi israeliani. Ma è altrettanto vero che, ancorché pavido e commercialmente asfittico, litalico cinema sta provando ad affrancarsi dallinfamante etichetta, sperimentando nuovi orizzonti geografici e tematici.
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