«Colloqui con Paolo Emilio Taviani» (De Ferrari) di Paolo Lingua racchiude trent'anni di conversazioni - 1969/2001 - sulla storia politica della Liguria e d'Italia. A Lingua poco prima di morire, a 89 anni, Taviani mandò le pagine in bozza del suo «diario» (Il Mulino stava per pubblicarlo) sulle «vendette» partigiane nel '45 in Genova. Di matrice comunista contro fascisti e fiancheggiatori furono «spesso vendette personali» come è scritto nel libro. Nel primo capitolo oltre alla formazione politica di Taviani, ricorrono la Resistenza e il dopoguerra, ma fin da questo «antipasto» colpisce uno sbrigativo voler voltar pagina su quei fatti nella dichiarazione: «Fu Adamoli a capire che la questione andava chiusa rapidamente. I comunisti più avveduti capivano che gli Alleati non avrebbero tollerato a lungo esecuzioni e vendette...». E un elogio fideistico: «A Genova i comunisti anche negli anni della guerra fredda ebbero sempre i piedi per terra».
Il libro riserva altri bocconi indigesti tra cui l'intervista di Scalfari direttore dell'Espresso (che doveva restare conversazione privata) sull'origine e il marchio ideologico delle stragi nel periodo degli «opposti estremismi». Nell'intervista la matrice è definita «di destra» e Taviani non smentì: crebbe poi il numero di «fessi» che disse «nere» le Br rosse.
Nel capitolo «Misteri» Taviani (per 21 anni al Governo - '53/'74 - cinque alla Difesa e otto all'Interno per cui è impossibile sostenere che il ministro fosse «all'oscuro dei fatti») ne declassa alcuni ad incidenti: la morte del partigiano «Bisagno», la morte di Enrico Mattei. Ridimensiona a montatura artificiosa il «golpe» De Lorenzo. Del generale ricorda che dopo aver vissuto della sua pensione morì lasciando come eredità più vistosa un cavallo di razza (l'equitazione era stata sua antica passione).
Altro boccone indigesto per il lettore che vuol sapere gli «spaghetti in salsa cilena»: suo sogno d'importare l'esperimento rivoluzionario del golpe di Santiago (11 settembre 1973) per applicarlo da noi come alleanza di socialisti, comunisti e democristiani di sinistra.
Anche un boccone, Tangentopoli esplosa alla chiusura delle Colombiane, fu indigesto a Taviani. Precisava non coinvolse i parlamentari della vecchia Dc ligure.
Brillano nel libro quattro antagonisti di Taviani: Roberto Lucifredi «avversario duro ma leale», il cardinale Siri e il suo braccio destro al Nuovo Cittadino, il direttore Luigi Andrianopoli. Ne ho detti tre, ma prima di chiamare in causa il quarto, evidenzio la pagina 45 in cui Lingua, osservatore politico di razza, ricorda che nel 1966 quando Taviani fu ministro dell'Interno suoi fiduciari restarono «a reggere in Liguria le categorie professionali più importanti, Camere di Commercio, Confindustria, Casse di Risparmio. I partiti alleati vennero inseriti e aiutati: i socialisti, l'alleato più forte, ebbero dappertutto vicesindaci e vicepresidenti...». Un sistema capillare di occupazione che fa capire perché questa Dc sarebbe implosa e perché da allora «i partiti» (non le formazioni di popolo libero) avrebbero avuto il fiato corto. E vengo all'ultimo «antagonista», Pertini, pur in rapporti di stima con Taviani. Il Pertini che surclassandolo ebbe la Presidenza della Repubblica anche se sul piano del partito contava poco (leggi p. 35: tessere e sezioni). Quattro antagonisti con in comune il carisma che mancò ai molti suoi «delfini».
Nel libro anche il suo «testamento»: adesione e fedeltà al Partito popolare italiano, cui dar ali in Europa, da intendersi in continuità alla vecchia Dc. In questo libro l'arte di scrivere fa digerire la storia politica con lo scintillio di osservazioni intelligenti.
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